Un dialogo con Marco Ansaldo
Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana
Marco Ansaldo è uno dei giornalisti più acuti nel panorama italiano. Nel Consiglio Scientifico di Limes, la rivista di geopolitica, docente di Giornalismo presso la LUISS di Roma, inviato speciale in numerose parti del pianeta, autore di libri (tra cui, uno bellissimo, sul suo conterraneo Fabrizio De Andrè), Ansaldo dal 2017 vive a Istanbul e lavora come corrispondente per Repubblica. Del giornale fondato da Scalfari è stato vaticanista in una delle stagioni più travagliate per la Santa Sede, gli ultimi anni di Pontificato di Benedetto XVI e i primi di Francesco. Dunque, un conoscitore attento di ciò che si muove nelle stanze oltre Tevere. Da pochi giorni, in libreria, si trova il suo ultimo libro: “Un altro Papa”, pubblicato per Rizzoli. Uno sguardo documentato su un periodo importante per la Chiesa cattolica contemporanea.
In questo libro lei racconta un tempo tra i più faticosi della storia della Chiesa contemporanea sfociato nelle dimissioni di papa Benedetto. Che ragioni si è dato di questa clamorosa scelta che lei sostiene essere “un mistero mai in fondo risolto”?
I motivi, detti e non detti da Benedetto XVI, sono molti. Sicuramente i due esplicitati già della Declaratio in cui annunciava la sua rinuncia al Pontificato: la salute cagionevole e la vecchiaia. Ma questi non mi sembrano, e lo dico da vaticanista, motivi sufficienti a compiere una scelta così dirompente. Quanti altri Papi avrebbero così voluto dimettersi… Eppure Joseph Ratzinger ha avuto il coraggio di prendere questa decisione. E’ per me quindi ovvio, avendolo visto da dentro e vissuto quegli anni così drammatici, il fatto che Benedetto abbia voluto dare un segno, e in un certo senso ribellarsi a tutti i legami cui si sentiva costretto, sottoposto a critiche feroci, vista la battaglia “insostenibile” che si stava compiendo contro di lui. Quel gesto, perciò, lo ha sublimato.
Nel libro lei definisce quella scelta “un gesto di straordinaria potenza, di grande libertà, compiuto da uno dei Papi più complessi e forse meno compresi”. Qual è il suo giudizio su Papa Benedetto XVI?
Papa Benedetto XVI verrà ricordato, oltre che per tutto il corso del suo Pontificato, fra alti e bassi, soprattutto per la sua rinuncia clamorosa al Soglio di Pietro. Come ha detto lo stesso Francesco, “ha aperto una porta”. E altri lo seguiranno, io immagino prima o poi lo stesso Jorge Mario Bergoglio, anzi mi sembra evidente dalle sue parole. È stata dunque una scelta di portata storica, chissà quanto travagliata per Ratzinger, sotto il profilo istituzionale e personale. Eppure, da tedesco razionale, l’ha compiuta. Un passo di un coraggio straordinario.
La relazione tra i due Papi, al di là delle intenzioni di entrambi, non è sempre stata lineare. Lei narra una serie di episodi che mostrano quanto sia stata complicata la “continuità”. Quali sono le maggiori affinità tra i due pontifici e quali le differenze più evidenti?
Non vedo continuità tra i due ultimi Papi. Le affinità non le vedo nemmeno sul piano personale: sono due uomini dalla storia, dalla formazione e dal percorso completamente diverso. Figuriamoci la visione pastorale. Si stimano e si vogliono bene, questo sì. Ma i loro due Pontificati guardano a fronti diversi, come è evidente a tutti, esperti e no. Solo la narrazione ufficiale vuole vedere i “due Papi” accomunati. Un accostamento che mi pare quanto meno forzato.
Nel libro sono presenti alcuni colloqui con don Ganswein, il prefetto della casa pontificia che per sette anni è stata un’inedita figura di raccordo tra papa Benedetto e papa Francesco. La sua figura è stata spesso oggetto di discussioni. Lei cosa ne pensa?
Anch’egli è un uomo coraggioso. Si è trovato in quel ruolo così centrale, il fulcro fra i due Pontefici, in maniera del tutto casuale. Non è facile, se ci pensiamo. Un compito bello, ma infine dirimente. In ultimo si è trovato a dover scegliere. E lui era sempre stato l’assistente personale di Ratzinger. La decisione clamorosa del suo superiore lo ha travolto. È stato prima oggetto di critiche facili e poi ingenerose. Ma è un ministro impeccabile della Chiesa, e una persona di grande spessore umano e spirituale. Credo che prima o poi prenderà finalmente la strada che desidera da tempo: occuparsi di anime dal punto di vista pastorale, rifuggendo compiti amministrativi.
Il volume termina con alcune considerazioni sul “caso Becciu”. Dal suo osservatorio quali saranno le sfide che la Chiesa cattolica è chiamata ad affrontare nell’immediato prossimo futuro?
Il cardinale Carlo Maria Martini nella sua ultima intervista pubblicata postuma aveva visto lontano, secondo me: “La Chiesa è indietro di 200 anni. Abbiamo paura invece di coraggio”. La Chiesa appare, ora più che mai, un’istituzione ingessata. E il caso Becciu ha ancora una volta evidenziato come sia divisa al suo interno. Il modello strutturale che si è autoassegnata nel periodo del suo massimo splendore oggi non regge più. C’è bisogno di più coraggio. E di scelte decisive, come sta accadendo, con molte discussioni, su fronti quali il celibato dei preti e di un maggiore spazio alla donne, come avviene in altre confessioni.
Dove ritrova il valore del pontificato di papa Francesco?
Appunto, nel coraggio. In questo Francesco si sta distinguendo: nel coraggio delle scelte, e in maniera molto chiara, fin dall’inizio del suo Pontificato. Benché in modo un po’ confusionario, caotico, nel cosiddetto “lio”, cioè nel caos, come dicono in America Latina. Ma la vicinanza e l’affetto che Bergoglio convoglia a sé nel rapporto con i fedeli, sono sicuramente ragioni che fanno sentire il Papa argentino più vicino al popolo della Chiesa. Ratzinger era un uomo di studi, un grande teologo, che si è chiuso nel suo Appartamento fino a delegare le funzioni istituzionali. Bergoglio ha un rapporto più empatico con il suo gregge. E questo la gente lo sente, e funziona. Ma è avversato dai conservatori e dai tradizionalisti.
Da qualche anno vive a Istanbul, un osservatorio privilegiato per leggere dal punto di vista geopolitico questo pontificato. Che impressione ne ha ricavato?
Mi sono trovato diverse volte a dover descrivere due mondi: quello del Vaticano preso da una crisi tanto dirompente, e quello turco durante l’ascesa travolgente di Recep Tayyip Erdogan. Per non parlare di Istanbul come punto di osservazione centrale su tutto il mondo musulmano. Per me è un arricchimento enorme, personale, professionale, spirituale. Vedo da lì due mondi che si guardano. E che, più spesso di quanto sembri, tendono a voler dialogare, piuttosto che scontrarsi, cosa che ricercano solo i più radicali. È già molto, e su questa strada occorre insistere per trovare territori comuni di confronto culturale e religioso. Tutto questo servirà – la Storia lo insegna – poi alla diplomazia, all’economia, agli scambi fruttuosi tra aree e persone altrimenti lontane. Istanbul e Roma sono tuttora zone di osservazione fondamentale per capire il mondo come si è formato, quello attuale e quello che verrà.