Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana
Mi ha molto colpito che nel decreto del Governo per contrastare la diffusione dell’epidemia, tra le poche attività lavorative che si sono ritenute necessarie, accanto al lavoro del personale sanitario e a poco altro, sia stata messa anche quella della fabbricazione e commercializzazione delle armi. Abbiamo assistito ad un paradosso: molte aziende dell’economia civile hanno aderito con grande serietà al fermo delle loro attività muovendosi a salvaguardare in ogni modo la salute dei lavoratori mentre altre aziende, in particolare quelle delle armi, che qualcuno definisce l’industria incivile, abbiano avuto il benestare per proseguire.
Mentre l’industria si fermava, continuavamo a produrre gli F35
Con lucidità un gruppo di associazioni e riviste (Banca Etica, Pax Christi, Movimento dei Focolari Italia, Mosaico di Pace, Economia Civile) hanno scritto un documento per dire che la scelta del Governo è stato un pessimo segnale da denunciare con forza. In specifico, sostengono, anche durante il tempo di sosta “si è continuata la produzione degli F35 a Cameri (Novara). Un aereo che può trasportare anche bombe nucleari. Perché accanirsi in questa direzione? Quali interessi ci sono dietro a questo progetto? Con i soldi di un solo F35 (circa 150 milioni di Euro) quanti respiratori si potrebbero acquistare? Sappiamo di alcune industrie che stanno tentando di riconvertire almeno in parte la loro produzione. Questa è la strada da percorrere.”
Di cosa abbiamo bisogno?
È bene ricordare che queste riflessioni cadono proprio durante le Giornate Globali di Azione sulle spese militari (10 aprile – 9 maggio), un’iniziativa mondiale che vuole attirare l’attenzione sul grande costo-opportunità degli attuali livelli di spesa militare: 1.820 miliardi di dollari all’anno, quasi 5 miliardi di dollari al giorno. La bellezza di 239 dollari a persona. Eppure ce ne siamo resi conto tutti: le strutture militari non possono fermare la pandemia in atto, e non lo faranno.
Questa crisi può essere affrontata solo sostenendo l’assistenza sanitaria e le altre attività di sostegno alla vita, non con attrezzature militari e personale preparato per la guerra. Il fatto che le risorse militari vengano impiegate durante questa crisi può essere profondamente fuorviante: non giustifica i loro budget gonfiati, né significa che stanno risolvendo questa crisi. Mostra piuttosto il contrario: abbiamo bisogno di meno soldati, cacciabombardieri, carri armati e portaerei e più medici, ambulanze e ospedali.
Le due strade che abbiamo di fronte
In un recente articolo per Repubblica, Muhammad Yunus, l’economista bengalese, fondatore della Grameen Bank, ha scritto che questa crisi ha aperto di fronte a noi due strade: o riportare il mondo nella situazione nella quale si trovava prima del coronavirus o lo ridisegniamo daccapo. Secondo il Premio Nobel per la pace del 2006 il peso dell’insostenibilità sociale, economica, ambientale del mondo di prima dovrebbe portarci alla consapevolezza che quanto è accaduto ci sta offrendo inestimabili opportunità per un nuovo inizio.
Rivediamo le priorità?
Per decenni ci siamo sbagliati sulle nostre reali priorità, è dunque giunto il tempo di (ri)considerare come la spesa militare si sia presa un’enorme quantità di risorse pubbliche per fornire una falsa nozione di sicurezza che non ha nulla a che fare con le esigenze e i diritti delle persone in materia di assistenza sanitaria, istruzione e alloggio, per citare solo alcuni tra i servizi sociali essenziali. È tempo di spostare il bilancio militare verso i veri bisogni umani.
È tempo di investire sull’economia civile. È tempo di abbandonare quella incivile.