Mentre è in corso a Bruxelles il dodicesimo round di trattative (in cui si tratterà anche del sistema di risoluzione delle dispute) gli ultimi aggiornamenti riguardanti il Ttip seguono due principali direttrici: da un lato si registrano le difficoltà negoziali e la tentazione di colpi di mano; dall’altro lato, si nota la crescita di studi che confutano quanto è stato finora dichiarato in merito agli effetti dell’accordo.
L’approvazione del Trattato era inizialmente prevista per il 2014, ma nell’Unione nessuno o quasi scommette più sulla ratifica a breve di questo accordo, a meno di radicali modifiche che incontrato le ostilità degli Usa. Uno degli ultimi ostacoli in cui, infatti, è incappato il negoziato riguarda la questione dei prodotti a denominazione di origine controllata e di indicazione geografica protetta (Doc e Igp), della quale ora anche il governo italiano, da sempre vivace sostenitore dell’accordo, sembra seriamente preoccupato.
Il nostro Paese è leader mondiale in questo genere di produzioni, specialmente nell’agroalimentare e nel settore vitivinicolo, dove si registrano oltre 800 nomi registrati, per un valore economico di 11,8 miliardi di euro. L’Italia chiede misure più drastiche contro le etichette poco chiare, che favoriscono la concorrenza sleale, e per contrastare il fenomeno denominato “Italian sounding” (di cui gli Stati Uniti sono il principale rappresentante straniero), con il quale si indicano le contraffazioni dei prodotti del nostro Paese all’estero, i quali vanificano impegno e investimenti effettuati dalle nostre realtà imprenditoriali. Significa riuscire a tutelare o meno la qualità dei nostri prodotti.
La protezione dei marchi è questione centrale: gli europei intendono proteggere questo valore aggiunto, mentre la posizione americana, ormai svelata, è quella di giungere ad un accordo per il quale la protezione dei brand Ue non penalizzi la commercializzazione delle merci americane simili, vendute con lo stesso nome generico dei prodotti europei e che potrebbero, altrimenti, essere escluse dal mercato. Gli statunitensi sono rigidi su questo ma di fatto si tratta di un inganno che limiterebbe in particolare la crescita delle nostre esportazioni verso gli Usa. Questi ultimi intendono proporre un sistema per cui sia possibile verificare se un prodotto ha diritto o meno a godere di questa speciale tutela, ma la questione resta controversa e delicata sul piano negoziale, specialmente considerando ciò che è già accaduto nel Ceta, l’accordo gemello col Canada: in tale trattato ci si è accordati su una lista di 173 prodotti da proteggere su un totale di 1.438 protetti in Europa; quelli italiani sono 41 su 275. In definitiva, quella dei prodotti protetti si mostra come un buon esempio per comprendere come l’armonizzazione fra le regolazioni delle due sponde dell’Atlantico possa tradursi in un abbassamento degli standard e in un danno per le imprese europee.
Si moltiplicano gli studi accreditati che mostrano come siano in gran parte illusori i grandi vantaggi prospettati dai sostenitori dell’accordo. Per citarne solo alcuni, è disponibile anche in lingua inglese uno studio dell’UnternehmensGrün (Associazione Federale Tedesca di Economia Verde), un’organizzazione non-profit indipendente finanziariamente e politicamente, che rivela come il Trattato potrebbe tradursi in una seria minaccia per la sopravvivenza di molte aziende del settore agricolo in Germania e di molte attività di lavorazione di medie dimensioni nella produzione di alimenti. Prendendo in considerazione le principali aree di conflitto e le principali differenze strutturali tra le due parti dell’Oceano, lo studio conclude che i lobbysti e i portatori di interessi americani stanno cercando di usare il Ttip per indebolire o rimuovere le barriere esistenti al commercio passando per la regolazione sanitaria, ambientale e di benessere degli animali. Una fondamentale diversità esiste, infatti, nelle strutture e negli standard fra Europa e Usa, che può talvolta tradursi in considerevoli differenze nei costi di produzione, a danno delle imprese europee. Lo studio termina addirittura suggerendo di eliminare dal Trattato tutto il settore dell’agricoltura e della produzione di alimenti, viste le enormi differenze nelle dimensioni di impresa e nelle politiche di protezione dei consumatori tra le due sponde dell’Atlantico.
Altri studi recenti di enti accreditati (Corporate Europe Observatory – Ceo) mostrano che la cooperazione regolatoria, che dovrebbe essere una pietra miliare del Ttip, mette a rischio gli standard e i livelli di protezione in vigore costituendo un pericolo per il pubblico interesse: benché i negoziatori europei e la Commissione affermino il contrario, l’esperienza compiuta in differenti campi li smentisce. L’unico obiettivo di tale cooperazione – secondo tale studio – è rimuovere le barriere al commercio e queste ultime possono essere qualunque cosa presente nel contesto politico. Così viene offerta una cassetta degli attrezzi ai lobbysti delle imprese, fornendo loro la forza di penetrazione per dominare l’agenda normativa ufficiale, opportunità che non esiteranno ad utilizzare. In definitiva è una strategia che investe profondamente il processo decisionale e la democrazia, favorendo una stretta collaborazione tra funzionari e lobbysti, e limitando l’influenza dei politici eletti.
Nel frattempo la Osgoode Hall Law School, presso l’Università di York a Toronto ha pubblicato uno studio raccogliendo dati sulle dimensioni e la ricchezza degli investitori stranieri che hanno presentato reclami e ottenuto risarcimenti grazie alla clausola Isds. Il principale risultato emerso è che i beneficiari dell’Isds sono stati in misura schiacciante le imprese con più di un miliardo di dollari di fatturato annuo – soprattutto le grandi imprese con più di 10 miliardi di dollari di fatturato – e i singoli individui con più di 100 milioni di dollari di ricchezza netta. La clausola di risoluzione dei conflitti ha dunque prodotto benefici monetari principalmente per questi soggetti, alle spese degli Stati chiamati a rispondere. Inoltre, è stato rilevato che le grandi imprese hanno successo nella fase che stabilisce il merito delle richieste avanzate con ampio margine sul tasso di successo degli altri ricorrenti. La clausola Isds ha assicurato anche sostanziosi benefici monetari per l’industria legale che se ne occupa.
A livello europeo, le tante organizzazioni impegnate nel contrasto al Trattato transatlantico proseguono il lavoro di pressione sulle istituzioni comunitarie e degli Stati membri. I movimenti anti Ttip in questi mesi di battaglia sono riusciti a spostare su posizioni sempre più scettiche governi e partiti importanti nell’Unione. Ma c’è il rischio che, dopo quasi tre anni, i negoziati per il Ttip vedano ora una brusca accelerazione: il pericolo è che, per evitare di rimandare tutto a dopo le elezioni americane, la commissione Ue ed il ministero del Commercio Usa approvino in fretta «una cornice vuota che affermi il Ttip come spazio transatlantico di decisione di regole e commerci, rinviando i dettagli importanti ai tecnici, le cui attività saranno ancora più segrete di quelle delle attuali trattative», come affermano i portavoce della campagna “Stop Ttip”.
Contro questa eventualità serve una risposta forte, come già sono state la raccolta di firme, che ha superato i 3,5 milioni di adesioni e la manifestazione che ha avuto luogo a Berlino il 10 ottobre 2015, in cui 250 mila persone provenienti da tutto il continente, movimenti, associazioni, sindacati e tante altre realtà sociali hanno sfilato per le strade della città tedesca, per richiamare il dibattito pubblico su un tema così complesso e difficile.
Per dare il segno che la società civile ha intenzione di resistere al tentativo di espropriazione dei suoi diritti ed è capace di ispirare il processo democratico, la Campagna Stop Ttip Italia si è candidata ad organizzare una nuova grande giornata di mobilitazione europea contro Ttip, Ceta e Tisa a Roma. In vista di questo evento, per il 27 febbraio la Campagna ha previsto di effettuare 4 assemblee macroregionali a Torino, Padova, Roma e Bari. Le assemblee mirano a verificare alleanze, risorse e strumenti possibili da mettere in campo, mobilitando energia, motivazione e ottimismo, per opporre al paradigma neoliberista, che ispira gli accordi internazionali sul commercio, una diversa idea di mondo, fatta di partecipazione e cooperazione solidale.