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Quali che siano le evoluzioni riguardanti la Brexit, sono già evidenti i danni che questi due anni di scellerati teatrini hanno prodotto: dalle Agenzie UE che hanno abbandonato il Regno Unito alle multinazionali che hanno interrotto le assunzioni e operato trasferimenti, un prezzo già alto è stato pagato dai cittadini britanni ed europei in Gran Bretagna. Non solo: dagli scenari elaborati dal Tesoro britannico la contrazione economica del Regno Unito sarà evidente e questo avrà ripercussioni anche sull’economia continentale.
A confronto con gli altri grandi paesi UE, scrive l’IPSI, “l’Italia appare a prima vista meno esposta al rischio Hard Brexit: solo poco più del 5% delle nostre esportazioni è diretto verso il Regno Unito. Tuttavia è proprio Roma ad avere il terzo maggiore surplus commerciale europeo nei confronti di Londra (12 miliardi di euro l’anno). Un surplus peraltro in aumento negli ultimi anni, che oggi rende il Regno Unito il quinto importatore di beni italiani. Tra i settori di punta del nostro export, i più esposti sono la meccanica strumentale, il tessile, il chimico e l’agroalimentare”. Inoltre, “molti investimenti britannici sono localizzati nel Nord Italia, e in Lombardia in particolare, con il rischio quindi di un effetto consistente a livello locale”.
Se i dati economici possono apparire asettici, bisogna considerare l’insieme dei cittadini e dei lavoratori che stanno dietro ad essi. I collegamenti tra l’Italia e il Regno Unito, a questo punto, divengono molto forti: sono circa 600.000 gli Italiani che vivono in Gran Bretagna, con Londra che è, de facto, una delle più grandi città italiane per numero di abitanti (in costante aumento, causa iscrizione all’AIRE da parte di coloro che negli scorsi anni non si erano registrati). Nel clima di generale stagnazione delle economie europee, la Brexit sta portando incertezze, volatilità nei mercati e danni diretti per centinaia di persone. Ed è paradossale che, in un mondo in cui siamo chiamati a fronteggiare ben altri problemi, i cittadini europei si producano danni con le loro stesse mani.
I nostri sforzi dovrebbero essere diretti a contrastare i cambiamenti climatici, a favorire la transizione energetica verso sistemi eco-sostenibili (tema che in Francia sta creando tensioni sotto gli occhi di tutti), a consolidare le frontiere del mercato interno comune di fronte alle turbolenze create da Stati Uniti e Cina. Ad affrontare con successo la sfida dell’Industria 4.0 e delle migrazioni. È ora che si smetta di ragionare nell’ottica di meri decimali di consenso, contendendosi qualche Agenzia o criminalizzando i lavoratori migranti, e si affronti tutti insieme le sfide di medio e lungo corso. Ogni portatore di interesse, specie nella illusoria disintermediazione della nostra società, è quindi chiamato a prendere posizione.
Riteniamo che il tema del lavoro giovanile debba essere la priorità dell’Unione europea e del Parlamento italiano, consci che già oggi la nostra Associazione è attiva nel campo dell’assistenza ai lavoratori e nella loro educazione. I Patronati all’estero e la FAI sono in prima linea per difendere i diritti degli italiani all’estero, specialmente oggi in cui l’emigrazione non è più “di massa”, ma è comunque “in massa” (oltre 250mila italiani si sono trasferiti all’estero nel 2017). Ci auguriamo che un approccio europeo possa essere presto considerato un “patrimonio comune irrinunciabile” e che chiunque si sposti per studio, lavoro o prospettive di vita, possa essere considerato semplicemente come un «cittadino della casa comune europea».