A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana
Uno dei rari pensatori del nostro tempo ad aver compreso e raccolto la sfida che ci pone la complessità dei nostri esseri e del nostro mondo”, così Edgar Morin, il quasi centenario filosofo e sociologo francese, dice di Mauro Ceruti. Un giudizio, autorevolissimo, che sento di sottoscrivere pienamente. Ceruti, docente e direttore del Dipartimento di Studi classici, umanistici e geografici dello IULM di Milano, lavora da tempo sul tema della complessità. Contro ogni semplificazione che la banalizza, per un pensiero in grado di non frazionare ma di collegare, capace di sollecitare ciascuno di noi a un’etica della solidarietà e della fraternità planetaria.
Ceruti – autore di questo splendido libretto (Sulla stessa barca, Qiqajon) sostiene che dopo libertà e uguaglianza, protagoniste dell’Ottocento e del Novecento, è venuto il tempo della fraternità. Non c’è altra possibilità per rimanere uomini.
Sulla stessa barca. Un titolo che si richiama alla preghiera di papa Francesco in Piazza San Pietro il 27 marzo scorso…
L’immagine evangelica evocata da Francesco è efficace e icastica. Riassume in modo folgorante la condizione inedita nella quale si trova l’umanità del nostro tempo. Tutti i problemi hanno assunto una dimensione planetaria. E tutto è in relazione con tutto. Ma, questo nostro tempo è segnato da un paradosso: più siamo interdipendenti e meno siamo solidali. Viviamo ancora di fatto in un grande mercato planetario che non ha saputo suscitare sentimenti di collaborazione fra le nazioni. Questo paradosso aggrava e genera una fragilità diffusa, che accomuna tutti. E Francesco ha colto bene che può essere proprio la coscienza della fragilità ad aiutarci a riconoscere e ad assumere la fraternità universale anche come principio politico ed economico. Appunto, siamo tutti sulla stessa barca.
In questo senso, la pandemia ha mostrato ancora una volta l’interconnessione di questo nostro mondo. Da tempo tu sostieni la necessità di nuovi paradigmi che ci portino ad accettare la complessità del mondo…
La crisi sanitaria rende evidente quanto siano complessi, cioè fra loro intrecciati e non separabili, i fili della globalizzazione biologica, antropologica, economica, politica, culturale, psicologica, spirituale… La crisi della pandemia ha rivelato anche che, in realtà, la più profonda crisi del nostro tempo è una crisi culturale. La difficoltà cioè, da parte del paradigma tecnocratico dominante, di concepire la complessità dei problemi. La difficoltà è prodotta dall’eccessiva specializzazione e frammentazione delle conoscenze, che porta a una semplificazione dei problemi.
Certo, la specializzazione ha portato numerose conoscenze. Ma queste conoscenze sono incapaci di cogliere i problemi globali, che sono fatti di tante dimensioni intrecciate. L’università, la scuola e anche la divulgazione continuano a disgiungere conoscenze che dovrebbero essere interconnesse. Così, siamo in un altro paradosso: i modi di pensare che utilizziamo per trovare soluzioni alle crisi costituiscono essi stessi uno dei problemi più gravi che dobbiamo affrontare. La crisi ha rivelato l’impreparazione degli “esperti”. Perché, mentre i problemi sono globali e complessi, cioè multidimensionali, gli esperti frammentano i problemi e le loro soluzioni. Ma la crisi mostra che non ci possono essere singole risposte tecniche a singoli problemi.
Ciò che è avvenuto negli scorsi mesi, ha reso evidente che la complessità, il concatenarsi di molteplici elementi, renda l’imprevedibile possibile e l’improbabile probabile. La politica sembra non accorgersi di tutto questo e ragiona ancora secondo la logica dell’orizzonte corto…
La politica decide ancora dentro istituzioni e burocrazie nazionali, regionali e locali. Ma l’attuale condizione umana è trasformata da uno straordinario e rapido aumento di potenza tecnologica e di interdipendenza planetaria. La tecnologia ha esteso la sfera della nostra responsabilità verso nuovi ambiti: verso le specie viventi, verso gli ecosistemi naturali, verso il pianeta nella sua interezza. L’interdipendenza fa sì che viviamo in un’ecumene completamente umanizzata, cioè rende il mondo davvero uno solo, per tutti: la casa comune.
E nel mondo globale, tutto è connesso. L’intreccio di tante concause porta l’imprevedibile all’ordine del giorno. Il contagio di poche persone del Wuhan, una regione sino a ieri sconosciuta della Cina, si è trasformato in una crisi planetaria. Le conseguenze delle azioni umane si estendono nello spazio e nel tempo. E ciò fa sì che si estende anche, nello spazio e nel tempo, l’orizzonte delle responsabilità individuali e collettive. Lo ha messo chiaramente in luce anche Papa Francesco: i problemi e le crisi del nostro tempo obbligano a pensare in un orizzonte planetario e a lungo termine, mentre il dramma è che la politica non ha visione, e guarda solo a risultati immediati. Questo è un grosso scoglio sulla via della concreta attuazione di politiche di sostenibilità e, più in generale, di fronte alla necessità di governare la complessità.
Papa Francesco, cinque anni fa, con la Laudato Si’ l’aveva detto in modo chiaro: “Tutto è connesso”, “tutto è in relazione”… Come mai invece vanno per la maggiore coloro che, ad ogni livello, sostengono la semplificazione?
In un mondo incerto, le semplificazioni rassicurano, creano una nicchia protettiva, persino galvanizzano. Il mondo è sempre più complesso, e le menti, confuse e smarrite di fronte a questa complessità, tendono a essere sempre più semplificanti e banalizzanti. A questo bisogno viscerale di semplificazione, di controllo, di dominio, di previsione, oggi rispondono deliberatamente e con intenzioni diverse, più o meno esplicite, i programmi tecnocratici e neoliberisti, i programmi politici di stampo populista, certi personaggi mediatici, le fake news…
L’appeal della semplificazione, comunque, ha radici storiche e culturali profonde. La semplificazione è stato il paradigma di pensiero dominante nell’epoca moderna. La sua logica ha modellato i discorsi e le pratiche sociali, politiche, istituzionali. Trovare una soluzione univoca, quantificabile, ovvero rintracciare sempre una singola causa per ogni fenomeno, è diventato un abito mentale talmente radicato da far apparire controintuitivo o capzioso un altro modo di pensare, come quello complesso.
Ma semplificazione e quantificazione non vedono le sofferenze umane, che diventano così solo lo scarto muto della politica e dell’economia. Abitare la complessità richiede pertanto la capacità di indossare un “abito” diverso. Per questo, è sul terreno cruciale dell’educazione che si giocherà la partita per realizzare il cambiamento di paradigma che il nuovo tempo esige. Siamo di fronte alla necessità di raccogliere una grande sfida educativa: educarci alla complessità.
Tu scrivi della necessità di un umanesimo planetario e che il XXI secolo la fraternità possa diventare protagonista. Ci arriveremo per necessità o per convinzione?
La fraternità si fonda sul sentimento di una mutua appartenenza e si vive nella coscienza di appartenere a una stessa comunità e di agire in questo senso. Ma ciò, nella storia, è accaduto per ora in comunità “chiuse”, come le nazioni. La fraternità all’interno della comunità ha creato con ciò stesso il potenziale nemico al di fuori della propria comunità. Oggi, per la prima volta, la fraternità può diventare concretamente universale.
Anche perché sarà necessario, a motivo dei pericoli comuni che oggi legano tutti i popoli allo stesso destino. Infatti, l’umanità si trova in una condizione inedita: è diventata capace di autoannientamento, cioè di suicidio, con l’arma nucleare, con lo sfruttamento dell’ambiente che riduce la biodiversità e cambia il clima. E questa possibilità, questo pericolo, l’ha trasformata improvvisamente in una “comunità di destino”: o ci perdiamo tutti insieme o ci salviamo tutti insieme.
La fraternità terrestre, universale, è oggi divenuta realtà concreta, inscritta nella nuova condizione umana. Ancora una volta: “tutti sulla stessa barca e nessuno che può salvarsi da solo”. Papa Francesco ha scritto che “l’interdipendenza ci obbliga a pensare a un solo mondo, ad un progetto comune”. Questa obbligazione alla fraternità è dettata dunque dalla necessità.
Ma, nello stesso tempo, è anche un’obbligazione morale, perché scaturisce dall’impegno che ci si assume nel dire sì alla vita, nel garantire e consegnare un pianeta e una società planetaria vivibili alle future generazioni. Dobbiamo “decidere”, con coscienza, di diventare “fratelli, tutti”, per salvaguardare la casa comune; e “decidere”, con coscienza, di diventare fratelli con la natura, per salvaguardare noi stessi salvaguardando la casa comune.
Lo ha osservato bene Luciano Manicardi, nel suo libro Fragilità. Dobbiamo assumere la fragilità come condizione permanente e come condizione di opportunità. È dalla cura della fragilità, non dalla forza della guerra all’altro, che si rigenera l’immaginazione, la creatività umana. Sembra un’utopia. Ma, anche alla prova del Coronavirus, è un’utopia diventata concreta, non differibile. Per affrontare crisi globali, c’è bisogno di mettere insieme risorse e conoscenze al di là delle ‘frontiere’ nazionali. Il virus ignora i confini territoriali. Lo devono fare anche gli Stati”. La complessità della crisi sollecita a una prospettiva di solidarietà globale, dei saperi, delle culture, delle nazioni. La sfida è quella di concepire l’appartenenza comune a un intreccio globale di interdipendenze come l’unica condizione adeguata per la qualità della vita e la sopravvivenza stessa dell’umanità.
I cristiani d’Occidente, sempre più piccola parte all’interno di un mondo secolarizzato, quale compito e responsabilità hanno nel custodire l’appello alla fraternità?
Il compito e la responsabilità dei cristiani è proprio quello di ricordare, nelle parole e nelle azioni concrete, che pace, giustizia e salvaguardia del creato sono connesse e vanno di pari passo. Contrastare lo sfruttamento della casa comune e contrastare le ingiustizie e la povertà devono essere indisgiungibili per un cristiano. Dobbiamo riconoscere che la secolarizzazione non riduce, ma rende ancora più prezioso il ruolo dei cristiani. Il loro contributo alla costruzione della comunità di destino terrestre sarà fondamentale, nella misura in cui la fede cristiana si approfondirà e si arricchirà con quella coscienza della “fraternità universale” della cui necessità e improcrastinabilità ci parla Francesco nella Laudato Si’ e nella nuova enciclica, che perciò sono da lui rivolte a tutti. Fratelli, tutti.