A cura di Daniele Rocchetti, delegata nazionale alla Vita Cristiana
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È il 29 novembre 1944. Il treno partito da Birkenau arriva in Germania, al Lager di Neuengamme. Scendono 20 bambini. Fra loro Sergio de Simone, un bambino italiano. È il suo compleanno. Sergio de Simone era nato a Napoli il 29 novembre 1937. Le leggi antiebraiche del 1938 e la partenza del padre Edoardo per la guerra indussero sua mamma Gisella a tornare nella casa di famiglia a Fiume. La vita sembrava scorrere serena, poi i bambini ebrei vennero espulsi dalle scuole e agli adulti fu impedito di lavorare. Un delatore segnò la condanna di Sergio, della sua mamma, della sua nonna, delle sue cuginette Andra e Tatiana e della loro mamma Mira: furono tutti deportati alla Risiera di San Sabba e da lì a Auschwitz il 29 marzo 1944, con il convoglio 25T: arrivarono la notte del 4 aprile1944 e furono scaricati sulla rampa. Con la prima selezione, nonna Rosa fu mandata a destra, caricata su un camion e spedita al gas. Mamma Mira con le bimbe Andra e Tatiana raggiunsero Birkenau a piedi insieme a Gisella e Sergio. Furono tutti tatuati. Mira da quel momento divenne il numero 76482, Andra il 76483, Tatiana il 76484, Gisella il numero 76516 e Sergio il numero 179614. Sergio e le cugine la stessa notte furono separati dalle loro mamme e spediti nella baracca dei bambini. Il nome di Sergio appare in un raro referto medico datato 14 maggio 1944 e firmato dal dottor Josef Mengele, che riferisce di una visita che gli fecero alla gola. Si tratta di un importantissimo documento perché conferma la presenza dei “bambini di Bullenhuser Damm” nel campo di Birkenau. Da quell’inferno Gisella tornò, tornò anche la sorella Mira e le bimbe Andra e Tatiana. Sergio no, lui non tornò. Fu sopraffatto dall’inganno perpetrato da Mengele una fredda mattina di novembre del 1944, quando entrò nella baracca dei bambini di Birkenau e disse: “Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti”. Sergio de Simone fece un passo in avanti insieme ad altri diciannove bambini. Saranno trasferiti al campo di concentramento di Neuengamme, vicino ad Amburgo, usati come cavie di laboratorio – a loro verrà iniettato il virus della tubercolosi – assassinati con la morfina e impiccati nei sotterranei della scuola di Bullenhuser Damm.
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Eravamo numeri, non persone
Ogni volta che Andra e Tatiana raccontano del cuginetto Sergio è un pugno allo stomaco e il viso si contorce in una smorfia. Sono passati settant’anni ma il dolore non è ancora lenito. “Se non avesse fatto quel passo in avanti … ” forse non sarebbe finito in quel campo alle porte di Amburgo. Forse sarebbe ancora vivo. Domande che fanno male, come ha fatto male, molti anni dopo, sapere come è morto Sergio. “Stordirono i venti bambini li e appesero a ganci di macellai nei sotterranei”. Come siete finite ad Auschwitz? chiedo loro. “Siamo figlie di un matrimonio misto, il papà era cattolico, la mamma ebrea, e, fino al giorno del nostro arresto, nel 1944, tutto andava per il meglio. Il nostro ricordo più vivo di quel giorno è quando abbiamo visto la nonna in ginocchio che implorava colui che doveva essere il comandante di lasciare almeno noi bambine. La richiesta fu respinta e ci portarono a Trieste per prendere il treno. Nessuno dei presenti capiva cosa stesse succedendo ed il perché, ma io mi feci una prima idea guardando il barile dove avremmo fatto i nostri bisogni. Durante una fermata, nostra madre riuscì a lasciare un biglietto da una delle fessure del treno dove c’era scritto dell’arresto. Dopo ore di viaggio si aprirono gli sportelli. Scendemmo giù, notammo una grande confusione e subito ci selezionarono per andare a Birkenau. Arrivati al campo, ci fecero spogliare e tatuare un numero. A noi bambine, ci portarono subito in una baracca che si trovava accanto a quella delle donne. A noi bambini era concesso gironzolare liberamente nel campo,cosa che i prigionieri non potevano fare. “Cosa ricordate del campo?” “Soprattutto il freddo. Nell’aria c’era polvere e odore di cadaveri” mi dice Tatiana. Nella loro baracca c’erano una cinquantina di bambini. Letti a castello, uno per ogni piccolo. Un trattamento migliore rispetto a quello riservato ai grandi, costretti a dividere anche il giaciglio per dormire. Al centro una stufa a legna. E nessun giocattolo. “D’inverno giocavano a palle di neve, senza guanti. Era il nostro unico divertimento” spiega Tatiana. A sorvegliarli una capoblocco. “Il vivere nel lager, l’essere deportati in quanto ebrei, era diventata la cosa più naturale di questo mondo” confessa Tatiana. “Eravamo ebree. E come tali – ricordano – pensavamo che l’essere rinchiuse in un lager fosse qualcosa di scontato”. “Dopo un po’ – continua una delle due – scatta un meccanismo di difesa: nei bambini come negli adulti. E non ci rendevamo conto di quello che accadeva”. “Certo – spiegano meglio – nessuno aveva una parola di affetto, nessuno ci rimboccava le coperte. Per un bambino è terribile. Ma il lager era diventata la nostra casa, come le cataste di morti che si vedevano attorno. E poi, si sa, i bambini si distraggono con niente”. “Vi capitò di vedere vostra mamma? “Si, mi dice Tatiana, ogni sera, prima di andare a dormire, nostra madre veniva a ricordarci il nostro nome, perché non voleva che diventassimo dei semplici numeri, come auspicavano i tedeschi. Veniva tutte le sere, a suo rischio. Un giorno non la vedemmo più - raccontano – E neppure piangemmo. La mamma – pensammo – è morta, punto e a capo la vita continua”. Un’assenza di lacrime che oggi fa loro ancora male. “Non saprei dare una faccia a chi erano con noi al campo, a parte noi e il cuginetto Sergio. Forse all’inizio solo noi parlavamo italiano. Vedo bambini intorno a me, ma non ricordo i loro volti. Vedo le ombre e non i volti. Vedo un lager vuoto e cumuli di morti”. I bambini non avevano gli appelli quotidiani. “Si vegetava – raccontano ad una voce sola – giocavamo all’appello perché lo vedevamo fare agli adulti ed eravamo anche relativamente liberi di girare in una certa area”. “Il campo era grande – dice Andra – vedevo comunque il camino e il fumo che ne usciva”.
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Cavie da laboratorio
Il destino di quasi tutti i bambini, subito dopo il loro arrivo ad Auschwitz, erano le camere a gas. Come mai vi siete salvate? “Probabilmente hanno creduto che fossimo gemelle. Da piccole, pur avendo due anni di differenza, ci assomigliavamo molto. In quanto considerate gemelle eravamo “merce” importante per Mengele e per questo non ci hanno separato.” Secondo le stime dei ricercatori del Museo di Auschwitz, vennero deportati ad Auschwitz-Birkenau almeno 230.000 bambini ebrei provenienti da tutti i paesi dell’Europa occupata dalla Germania nazista. Tutti, salvo rare eccezioni, venivano uccisi al loro arrivo nel campo. Solo i gemelli o i bambini giudicati interessanti per gli esperimenti medici condotti dal dottor Josef Mengele venivano temporaneamente tenuti in vita per essere usati come cavie. Quando l’esercito sovietico arrivò al campo di Auschwitz, il 27 gennaio 1945, erano in vita 650 bambini, di cui meno di 50 di età inferiore ai 10 anni. Tra questi 50 bambini vi erano Andra e Tatiana. Cosa ricordate della liberazione? “”Mi ricordo ancora quei soldati i russi. Avevano una divisa diversa dai tedeschi. Ci ha colpito in particolare la stella rossa che avevano sul berretto. E distribuivano panini con il salame. Comunque eravamo troppo piccole per capire”. Dopo la liberazione, Andrea e Tatiana perdono i contatti con la mamma che credono morta e hanno dimenticato quasi del tutto la lingua italiana. Nel febbraio 1945 vengono trasferite insieme ad altri bambini in un orfanotrofio vicino a Praga dove imparano a parlare in ceco e dove rimangono fino al marzo del 1946, quando vengono messe su un aereo con altri bimbi e inviate in Inghilterra, nella campagna di Lingfield, nel Surrey, dove sir Benjamin Drage aveva messo a disposizione la sua tenuta per accudire bimbi ebrei che avevano vissuto sulla propria pelle la tragedia della persecuzione. Per la prima volta, Andra e Tatiana trovano un’accoglienza amorevole, l’assistenza di una psicologa, educatori competenti e persone in grado di aiutarle a ricostruirsi. Il periodo inglese, che implica anche l’apprendimento di una nuova lingua, è quello ricordato con una gioia che sfiora l’entusiasmo. “Eravamo seguite tantissimo, facevano di tutto per noi, e ognuno di noi aveva una ‘zia’ che una volta la settimana ci portava un regalo, ci portava anche fuori a passeggiare; tentavano con piccole grandi cose di riportarci alla vita normale”, dice Andra. “Non mi ricordo di avere parlato con uno psicologo – specifica Tatiana – ricordo invece di essere stata seguita come in famiglia, erano come delle mamme per noi, sentivamo amore intorno a noi, questo ci ha aiutato immensamente”.
Mentre le due sorelline tentano di ritrovare serenità e affetto, Mira, la loro mamma, sopravvissuta anch’essa, cerca con ogni mezzo di arrivare a sapere se le piccole siano ancora in vita e in quel caso dove siano finite. Il comitato per i rifugiati ebrei di Londra insieme alla Croce Rossa Internazionale si danno da fare, partendo dai numeri tatuati alle due sorelline che la mamma aveva tenuto a mente con amorevole disperazione. Un giorno, infine, arriva a da Napoli una busta in cui le famiglie De Simone e Bucci chiedono eventuali notizie dei loro bimbi. Nulla per Sergio, ma Andra e Tatiana sembrano proprio corrispondere. Nella lettera successiva viene inviata in Inghilterra la foto di mamma e papà Bucci e le due bimbe li riconoscono. Ma ci vuole ancora tempo perché la complicata burocrazia e i comprensibili timori di errori vengano superati. Nel dicembre del 1946, finalmente, le due bimbe vengono portate a Roma dove ritrovano i loro genitori. Ma è un incontro quasi imbarazzante, perché troppo tempo è passato, le bimbe si stringono alla loro accompagnatrice piuttosto che rispondere ai gesti d’affetto dei genitori. È un lieto fine, ma ci vuole tempo per ricostruire anche il rapporto più naturale del mondo. “Ci mettemmo a piangere alla vista di quella donna che prima conoscevamo perfettamente e che ora sembrava una perfetta estranea. Avevamo paura di ricominciare un’altra vita e la nostra accoglienza rese triste nostra madre. Solo cinquant’anni fa, alla nascita del mio primo bambino, capii il dolore che provò nostra madre il giorno del nostro arrivo a Roma”.
La vostra storia è una delle rare vicende a lieto fine del campo di sterminio. Secondo voi, che cosa vi ha aiutato a restare in vita? “L’unica fortuna che abbiamo avuto è stata quella di stare unite. Un legame che ci ha dato la forza per sopravvivere. Essere piccole in quella follia è stato anche un bene, perché le molte cose che sono successe sono state semplicemente rimosse da noi. Anche una volta tornate a casa assieme alla mamma, non abbiamo mai parlato della vita nel campo o di quello che ci è accaduto. Era quasi come un tabù da evitare, anche perché nostra madre voleva cancellarlo a tutti costi. Va detto inoltre che subito dopo la guerra, molti dei sopravvissuti spesso esitavano a raccontare ciò che accadeva nei campi, perché non venivano creduti”.
Sono passati più di settant’anni. Andra e Tatiana, come molti dei sopravvissuti nei campi di concentramento e di sterminio, hanno voluto fare della loro voce la voce di quanti hanno subito la deportazione, l’umiliazione e la morte. Testimoni preziosi in una stagione in cui aumentano esponenzialmente persone che ridimensionano quanto le due sorelle raccontano o che, addirittura, negano l’esistenza dei Lager di sterminio Sono spesso invitate nei teatri di tutta Italia a raccontare la loro storia, guidano gruppi di giovani e di studenti nella visita ad Auschwitz-Birkenau. Tatiana, che da molti anni vive a Bruxelles, ora si definisce serena. Andra, quando si parla del cugino Sergio, ammette ancora di “avvertire ancora dei sensi di colpa: per non essere riuscita a convincere Sergio e per aver avuto più fortuna degli altri bambini del campo”. Entrambe, sul braccio sinistro hanno ancora impresso il numero. Che non hanno mai voluto cancellare. Per loro un ricordo terribile della tragedia che li ha ingoiate. Per noi un monito.
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“Perché ciò che è accaduto, può di nuovo accadere. Sempre. Dappertutto”. (Primo Levi).