È dal XVI secolo che elaboriamo l’idea e sperimentiamo la prassi dello Stato. Per secoli ci siamo convinti che lo Stato fosse la panacea di ogni problema. La povertà? L’istruzione? Ci pensa lo Stato. La parità tra uomo e donna? Pure quella. Senza l’azione dello Stato poco o nulla si sarebbe mosso, bisogna riconoscerlo. Ma oggi? Le evidenti difficoltà dello Stato nel dare risposte efficienti ed efficaci per una serie di questioni – dall’economia alle migrazioni, dall’ambiente all’energia, dalle relazioni internazionali al governo della scienza (tanto per dire le principali) – ci fanno cercare possibili mutazioni. Alcuni fallimenti dello Stato potrebbero convincerci che forse dovremo abbandonare l’idea che esso sia in grado di organizzare e governare tutta la società. Per quanto lo possa fare attraverso delle norme dal valore generale e coercitivo, la sua capacità di governare fenomeni molto vasti è piuttosto limitata. Ovviamente è sempre stato così, ma con la differenza che oggi questi fenomeni “macro” incidono in modo diretto e immediato anche sulla vita dei suoi cittadini, anche senza il “suo” parere.
Thomas Hobbes ipotizzava lo Stato assoluto come via razionale – anche perché basata su un patto consensuale – per proteggersi dall’insicurezza e dalla pericolosità, per difendere gli interessi interni e difendersi dalla paura. Si tratta di una difesa che richiede la sovranità assoluta dello Stato: protezione in cambio di obbedienza, potremmo dire. Il governo ha l’autorità perché ha il potere (vero) di prendersi cura dell’individuo. Lo Stato è in grado di garantire questa protezione, oggi? Solo in parte.
Questo “senso dello Stato” è stata la cifra fondamentale anche dei partiti politici novecenteschi, che hanno introdotto le masse nello Stato attraverso la loro formazione. Oggi i partiti politici sono in grado di garantire questa fedeltà allo Stato? Solo in parte. Anche perché si tratta di partiti nazionali, non transnazionali come si era anche ipotizzato.
È dunque una bella notizia che lo Stato non abbia più una capacità assoluta nelle cose che riguardano i suoi sistemi e i suoi cittadini, ma piano piano abbia maturato solo una capacità relativa. Questo valga nel duplice senso di relativo. Perché il primo indica il parziale, il proporzionato rispetto ai problemi che deve affrontare; il secondo specifica la dimensione della relazionalità, della connessione. Prendere atto di vivere in una condizione di Stato relativo significa accettare che i destini delle persone dipendano largamente dalle relazioni e dalle obbligazioni che si stabiliscono con gli altri Stati, e quindi anche dalle norme che gli altri Stati si danno, dai loro meccanismi di protezione e di tutela (si pensi all’ambiente). Significa anche accettare che lo Stato, per garantire “di più”, debba essere “di meno”, ossia parte di una o più comunità. In questo senso l’Unione europea rientra bene in questo schema: il potere relativo dei singoli Stati consente di affrontare i grandi fenomeni internazionali governandoli meglio. Oggi dovremmo prendere realisticamente atto che le comunità di Stati non sono un lusso o, peggio, un danno. L’Unione europea è dunque una necessità, perché per affrontare le grandi questioni servono connessioni, il più possibile stabili ed efficienti. In questo senso la parola solidarietà spiega meglio: in solido, come obbligazione reciproca. Forse è un senso molto materiale ma spiega bene l’utilità dell’essere… relativi.