Pierre Claverie (1938-1996), Vescovo di Algeri, martire
“E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen! Insc’Allah” Cosi termina uno dei documenti spirituali più significativi del Novecento, il testamento di frère Christian de Cherge, priore della piccola comunità di Tibhirine, sulle montagne dell’Atlante in Algeria, ucciso con altri sei confratelli nel maggio del 1996.
Riconosciuto il martirio
I sette trappisti, insieme a Pierre Claverie, vescovo di Orano, ucciso, insieme al suo autista mussulmano Mohammed da una bomba all’ingresso della sua casa e altri undici religiosi, tra i quali sei donne, assassinati in Algeria dagli islamisti in tre anni, tra il 1994 e il 1996, nel momento più tragico dello scontro tra il Fronte islamico di salvezza e lo stato Algerino, saranno presto riconosciuti beati.
In un’intervista rilasciata a Mondo e Missione il postulatore della causa, il monaco trappista Thomas Georgeon, ha detto che “rendere omaggio ai 19 martiri cristiani significa rendere omaggio alla memoria di tutti coloro che hanno dato la loro vita in Algeria negli anni Novanta. È un’occasione per riscoprire il significato vero del termine ‘martire’, ovvero testimone”.
E in un’intervista a Radio Inblu della Cei ha ricordato:
In Algeria negli anni 90 c’è stata una guerra civile in cui alcuni gruppi estremisti avrebbero voluto imporre una sorta di califfato. C’è stato un movimento di resistenza che ha portato ad una guerra terribile in cui 200 mila persone, quasi tutte mussulmane, hanno perso la vita affinché fosse rispettata la loro fede. Il martirio prende posto in questa storia. Tutti i membri della Chiesa avevano la possibilità di tornare nei loro rispettivi Paesi ma questi martiri hanno scelto di condividere questa vicenda con il popolo. Ci dimostrano inoltre che è possibile entrare in amicizia con l’altro che vive una fede diversa. Questi beati hanno mostrato il desiderio di cercare di capire ciò che l’Islam poteva dire loro”.
Dunque, i diciannove martiri non vengono beatificati perché sono stati assassinati ma, anzitutto, perché hanno scelto, nell’ora del pericolo di restare in tutta libertà e coscienza, malgrado i rischi, a fianco di un popolo in pericolo.
Il martire resta al suo posto perché è il suo posto
Insomma, come ha scritto Lodovica Maria Zanet in un bel testo da poco pubblicato (Martirio. Scandalo, profezia e comunione, EDB) il martire è chi ha le mani aperte e resta al suo posto perché è il suo posto. Non si muove contro nessuno, ma per la vita degli altri. Non cerca lo scontro, ma sta calmo e interiormente libero nel suo impegno quotidiano. Crea profezia perché legge i segni dei tempi e anticipa il futuro.
Dà voce a chi non ha voce, prova a farsi coraggio per chi non lo trova. È giudizio di Dio stesso su una generazione, parola autorevole e vangelo… (p. 137).
Il martire crea comunione perché porta l’amore e la donazione dove c’è discordia, odio e divisione. Egli “custodisce dove altri violano, vive senza compromesso la propria vocazione” (p. 133). Combatte con dedizione e passione battaglie per nulla appariscenti.
Pierre Claverie, lucido testimone del Vangelo
Se la storia dei sette trappisti è conosciuta dal grande pubblico anche per il magnifico film “Uomini di Dio” cosi, purtroppo, non si può dire degli altri. In particolare, poco si conosce il profilo culturale e spirituale di Pierre Claverie, un domenicano dai tratti eccezionali, figlio del Mediterraneo crocevia di popoli e religioni e raffinato intellettuale, profondo conoscitore della cultura araba e dell’Islam più autentico nel solco di Charles de Foucauld. Sarebbe utile leggere un suo testo pubblicato vent’anni fa dalla San Paolo: “Lettere dall’Algeria”.
Claverie era nato in uno dei quartieri più popolari di Algeri, da una famiglia francese presente in Algeria da molti anni. A vent’anni parte per la Francia per intraprendere gli studi universitari e prende coscienza di essere fino ad allora vissuto in una “bolla coloniale”, ignorando l’altro, algerino e musulmano, visto solo attraverso gli stereotipi. Un intenso travaglio interiore lo conduce alla scelta di entrare nell’ordine dei Domenicani. Viene ordinato prete nel 1965 e due anni dopo decide di tornare in Algeria, divenuta nel frattempo indipendente dopo la guerra di liberazione combattuta contro la Francia. “Ho chiesto di tornare in Algeria per riscoprire il mondo dove ero nato. È là che è cominciata la mia vera avventura personale”, dice in quegli anni. In Algeria Claverie ritrova una Chiesa che, sotto la guida del cardinale Duval (amatissimo dagli algerini), si è messa al servizio dei bisogni della popolazione. Claverie impara l’arabo, studia l’Islam e coltiva numerose amicizie fra i musulmani. Nel 1973 vene nominato direttore del Centro diocesano di Algeri, che diventa luogo di incontro e confronto con il mondo islamico. Nel 1981 arriva la nomina a vescovo di Orano.
Da allora fino alla morte Claverie dedica la sua vita al dialogo e all’incontro con la comunità musulmana, contro ogni intolleranza. Quando cominciano gli attentati, a chi gli chiede: “Perché rimanete?’”, risponde con queste parole:
Noi siamo qui a causa di questo Messia crocifisso. A causa di niente e di nessun altro! Non abbiamo nessun interesse da salvare, nessuna influenza da mantenere. Non abbiamo nessun potere, ma siamo qui come al capezzale di un amico, di un fratello malato, in silenzio, stringendogli la mano, asciugandogli la fronte. A causa di Gesù perché è lui che sta soffrendo qui, in questa violenza che non risparmia nessuno, crocifisso di nuovo nella carne di migliaia d’innocenti.
Nel 1993 Claverie si mostra lungimirante sul tema delle migrazioni dal Sud verso il Nord del mondo:
Due terzi dell’umanità sono aspirati dal quel terzo che si arricchisce e si spopola. E l’Europa cambierà volto. Dovremo dunque vivere insieme e se possibile mantenere uno spazio che non sia monopolizzato da una religione, da una cultura, da un tipo di ideologia”.
Un amore più forte della morte
Lo ha ben scritto Enzo Bianchi, fondatore di Bose:
Portare Gesù all’altro nella sollecitudine del servizio gratuito: è forse questo il messaggio degli “oscuri testimoni della speranza” che sono stati Pierre Claverie, i sette monaci martiri di Tibhirine e gli altri religiosi uccisi in quegli anni. Un annuncio che è portatore di vita e non di morte, di vita che rinasce al di là della morte; una memoria evangelica di cui ha bisogno la chiesa universale e in particolare le nostre chiese occidentali, forse assopitesi nel torpore di una plurisecolare cristianità e ora incapaci di pensarsi in una società che cristiana non è più. A volte basta un “piccolo gregge” di uomini e di donne che sperano contro ogni speranza per ridire il caso serio del cristianesimo, per narrare in maniera credibile la meravigliosa notizia dell’amore più forte della morte.
Daniele Rocchetti