A cura di don Cristiano Re, accompagnatore spirituale Acli Bergamo
Guardiamo alla famiglia di Nazareth e credo tutti contemporaneamente pensiamo alla nostra di famiglia.
Tante volte mi sono ritrovato a pensare e proporre riflessioni su come la famiglia di Gesù possa essere modello delle nostre famiglie.
Non ho smesso di pensare che possa essere così, ma certamente non attraverso forzature di sovrapposizioni che poi fanno acqua da tutte le parti con il rischio che poi noi ci troviamo a dire che quello è un modello irraggiungibile o quantomeno fuori dal tempo.
Succede quindi che mettiamo via il pensiero, limitandoci a ritenere la Santa Famiglia un icona davanti alla quale accendere una candelina chiedendo la grazia che in qualche modo vada tutto bene nella famiglie.
Per quel poco che riesco a capire, incontrando tante famiglie in questi anni e guardando alla mia di famiglia, capisco che quell’esperienza è unica, come unica è l’esperienza di ogni nostra famiglia, irrepetibile, come irripetibile la vita di ciascuno di noi.
Faccio proprio fatica ad immaginare che ci sia un modello unico.
E questo mi fa subito dire che, guardando alle famiglie e avvicinandoci ad esse, dobbiamo anzitutto essere molto umili e discreti e liberarci da ogni pregiudizio e quindi da ogni giudizio.
Non è scontata questa cosa. Quante volte mi sono ritrovato a dividere buone e cattive famiglie in base ai miei modellini, senza guardare in faccia le persone, senza provare ad entrare dentro alle loro storie.
Tante volte ho speso parole anche pesanti da stupido, senza neppure provare ad accogliere o domandarmi il perché di quel modo piuttosto che un altro, da dove veniva quella fatica o modo di interpretare la vita, le relazioni, su che effetto possono avere tempi e condizioni che non sempre si possono decidere, origini o percezioni sulla vita.
Non c’è una esperienza sovrapponibile a un’altra.
Non c’è un unico modello di famiglia, ogni famiglia è chiamata a scoprire il suo, a sognare, immaginare, trovare la sua strada.
Questa è una dimensione da imparare e da non dimenticare mai.
Proporre magari anche con enfasi modelli di famiglia che per qualcuno sono proprio irraggiungibili produce l’unico effetto di alimentare le nostre cattoliche depressioni perché non si può essere così.
Nella storia della famiglia di Nazareth non si tratta di andare a cercare un calco da riprodurre, ma un’ispirazione, un orizzonte a cui tendere, e poi siamo chiamati a chinarci su ogni cammino, e se ne abbiamo la grazia, ad entrare ed accompagnare per quello che ci è possibile e con grande umiltà, ogni cammino.
Credo ci siano tante cose da dire su questo brano;ne condivido solo alcune piccole.
La prima cosa che mi colpisce della Famiglia di Gesù a partire da questo Vangelo, è che era una famiglia in viaggio: “I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua” – è scritto –. “Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa”.
Il cammino, il viaggio, il pellegrinaggio!
È segno di una ricerca, la ricerca di un “altrove”. Ce ne accorgiamo e ce lo diciamo con forza che non ci basta la casa, le nostre quattro mura, le nostre abitudini per “starci dentro”.
Il loro salire a Gerusalemme, lo leggo non solo come un cammino esteriore, ma piuttosto come il desiderio di mettersi in viaggio verso ciò che ti porta in alto, verso i pensieri profondi, la ricerca delle cose importanti, quelle che “tengono insieme”; un viaggio dietro i pensieri di Dio.
E Gesù non è che si sia smarrito, come si diceva un tempo nella recita del rosario; ma rimane, per scelta sua, a Gerusalemme.
Perché? Mi piace dire perché è un figlio in viaggio, in ricerca di un “altrove”.
Ad un certo punto dice a sua madre e suo padre: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.
C’è un “altrove”. È in ricerca di un “altrove”.
E quei genitori anche loro si mettono in viaggio interiormente, se pur a fatica, in cerca di quell’“altrove”.
E sono convinto della fatica di questo viaggio interiore e nel brano di Luca si sente questa difficoltà di uscire, di capire, di mettersi in viaggio.
Si dice “Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro”.
Forse era proprio questa la verità; che Maria e Giuseppe a poco a poco erano chiamati a scoprire ripensando a ciò che era accaduto: su quel figlio non potevano mettere le mani.
Aveva il suo viaggio.
E non è una cosa che si capisce facilmente e una volta per tutte; infatti nei Vangeli si dice che un giorno già grande, saputo che non aveva neppure il tempo per mangiare, andarono per prenderlo e portarlo a casa. Dicevano: ”E’fuori di sé”.
Ci penso moltissimo! Credo che sia il nostro istinto di possesso!
E questa cosa dobbiamo dirla per ogni rapporto umano: l’altro, l’altra, che sia mia moglie, mio marito, un figlio, una figlia, un amico, un’amica; l’altro, l’altra, puoi cercarlo, cercarla, ma non puoi “mettere le mani” su di lui, su di lei.
Guai a voler sequestrare l’altro, guai trattenerlo nell’immobilità. Significherebbe perderlo, e forse perderlo per sempre.
Può essere che abbiamo trascurato o dato per scontata questa condizione essenziale che sta alla base del costituirsi di un buon rapporto, tra genitori e figli, tra marito e moglie, tra una generazione e l’altra: la condizione del viaggio, dell’andare “insieme” altrove.
Pensate quanti rapporti si frantumano perché uno dei due non si muove, o perché né l’uno né l’altro si muovono.
Perché pensi che l’altro, l’altra sia tua proprietà, perché sei capace di guardarla sempre e solo dal tuo punto di vista, perché parti sempre mettendo al centro te.
E se è così poi pensi di poterne disporre come ti fa più piacere o ti viene più comodo.
E, se non ci sta, se sfugge alla tua proprietà, se non è più disponibile, poi succede quello che succede…
E ci sono tanti modi, e voi lo sapete, di uccidere.
Ebbene l’altro, l’altra, non è una proprietà immobile, l’altro è in viaggio. Credo sia importante raccontarsi i viaggi: “Dimmi dove vai. Dove vai con i tuoi pensieri!”.
È provare ad accogliere come una grazia il mistero che abita l’altro, l’altra.
E credo si possa anche essere assieme da una vita ma sempre per avvicinarsi al mistero che abita l’altro e condividerlo prima bisogna “chiedere permesso”.
L’altro non è uno a tua disposizione, tu non puoi azzardarti a dire “Io posso!”, puoi solo fare la domanda: “posso?”, “permesso?”.
Lo dico davvero con tanta umiltà ma credo che davvero parti fondanti di quel dialogo che è il ponte che tiene assieme due persone siano proprio queste domande: “Ti piace che facciamo così? Che prendiamo questa iniziativa, che educhiamo così i figli? Vuoi?… “
Insomma, chiedere permesso significa saper entrare con “tenerezza”, con “grazia” nella vita degli altri.
So bene che non è facile.
A volte invece si usano maniere molto più pesanti.
L’amore vero non si impone mai con durezza e aggressività, in qualsiasi forma o contesto esso si esprima.
Sì, la tenerezza, l’accoglienza, la com-prensione conservano l’amore.
E oggi nelle nostre famiglie, nel nostro mondo, spesso violento e arrogante, c’è molto bisogno di tutto questo.