Per ragioni familiari in questo periodo mi sposto tra due quartieri: Gorla (viale Monza) e il Casoretto, più che un quartiere una via.
A Gorla c’è la sede del Circolo ACLI, è la zona dove sono nato e svolgo le mie attività. Qui il Centro d’ascolto ha organizzato la distribuzione di pacchi di viveri, 60 famiglie assistite, e il Circolo ha dato collaborazione. Hanno fatto poi altre proposte: messa in streaming, commenti della parola registrati, telefonate alle persone sole. Ora il tempo si allunga a dismisura. Spesso sto alla finestra, per fare qualche scatto. Vedo poche persone, si sente la loro voce dalla strada, e sfrecciano le ambulanze, lanciate nel deserto della città. Ogni tanto passano i corrieri, è il loro momento, e il camion giallo del Supermercato, per le consegne della spesa a domicilio.
Ci sono momenti di silenzio impressionante, una città fantasma. Mi torna alla mente, ineliminabile, un’associazione di idee, tra la tragedia che stiamo vivendo, isolati nel dolore, e quella del 20 ottobre 1944: il bombardamento della scuola elementare di Gorla, 184 bambini morti, con i loro insegnanti, una ferita ancora viva. Allora se ne andò una generazione di figli e nipoti, ora se ne va in modo altrettanto crudele una di genitori e nonni. Sembra si sia squarciata la tela dello schermo, e che tutti siamo entrati in uno di quei film dell’orrore, percorsi dai brividi della sindrome dell’estinzione.
Per fortuna ci sono gli incontri con le ACLI, via Zoom, un po’ meccanici, con la scritta che ti perseguita (il collegamento è scadente), la ricerca dello sfondo migliore (la libreria? i fiori?). Ci abituano alla sintesi, e sono una promessa di normalità. Poi leggi (“Il nome di Dio è Misericordia”, Andrea Tornielli su Papa Francesco, bello -… uscire dalle chiese, per andare a cercare le persone, là dove vivono, dove soffrono…- un programma per il futuro).
Nei pomeriggi lunghi, nel silenzio, recuperi brandelli di letture, di storie “sentinella, quanto resta della notte?” “la notte stà per finire, ma l’alba non è ancora arrivata”- Isaia 21,11-12.Canti Bella Ciao dal terrazzo, il 25 aprile. Guardi le opere liriche su RAI 5. Intrecci pensieri, e sulle note del “Vecchio e il bambino” di Guccini, ti sdoppi: sei la persona che subisce “le ingiurie del tempo”, ma anche il bambino, perché desideri la rinascita, perché sei stato in quella pianura, hai viaggiato molte volte in quelle terre, “tra la via Emilia e il West”. Ma oggi è l’undici maggio, sono al Casoretto. Sta per arrivare Silvia Romano, la cooperante di 24 anni liberata in Somalia dopo 18 mesi di prigionia. Abita qui in via Casoretto: in fondo c’è la chiesa conosciuta come “Abbazia di Casoretto”.
Sono arrabbiato: ieri alcuni giornali, alcune persone, si sono scatenati contro Silvia, con insulti feroci, perché sarebbe costata un riscatto e perché si è convertita all’Islam. Parole orribili ed irripetibili. Ma tutto è pronto. Quando arrivano le macchine scatta l’emozione, la festa. Per strada e dalle finestre applausi scroscianti, saluti, cuoricini fatti con le mani, striscioni… don Enrico dall’Abbazia suona le campane. Silvia sorride, chiede comprensione.No, forse dopo il Covid non ci sarà un mondo nuovo e solidale, ma quella gente commossa che saluta una giovane ragazza partita solo per aiutare dei poveri bambini kenioti, tenuta prigioniera per 18 lunghi mesi, rincuora ed è in sintonia con la solidarietà espressa dalla CEI. Hanno detto i vescovi: “Silvia è nostra figlia e nostra sorella”. Noi ci auguriamo che lo spirito solidale di Silvia sia un segno di speranza per un mondo migliore.