Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana
Michel Sabbah, è stato il primo Patriarca latino di Gerusalemme di origini arabe. Fu Giovanni Paolo II a nominarlo nel 1988 e durante i vent’anni di ministero è stato una delle voci più autorevoli della Terra Santa. Oggi vive ritirato per lo più a Gerusalemme, a piedi del Monte degli Ulivi, presso le suore Brigidine mentre il fine settimana lo trascorre a Taybeh, l’ultimo villaggio interamente cristiano della Palestina. Durante i miei viaggi mi è capitato di incontrarlo più volte. Questo è un resoconto di alcuni dialoghi.
Mons. Sabbah, lei è nativo di Nazareth, la città dell’annuncio a Maria. Può raccontarci alcuni tratti della sua storia personale?
Non so quanto siano interessanti… Da piccolo, a Nazareth, ho frequentato la scuola dei Fratelli delle scuole cristiane e lì, attraverso il catechismo e il contatto con i “frères”, ho sentito la chiamata al sacerdozio. Nel gennaio del 1943 sono partito da quello che allora era un villaggio per il Seminario minore diocesano. Lo Stato d’Israele non c’era. Ho preso semplicemente la strada di Jenin, in quelli che oggi sono i Territori palestinesi e poi ho attraversato Nablus, la Samaria, Ramallah e infine sono arrivato a Gerusalemme. Nel 1948 c’è stata la divisione politica nel Paese e sono nate le frontiere. A quel tempo in Seminario avevano varato un nuovo regolamento che permetteva ai seminaristi di tornare a casa per le vacanze. È stata una buona cosa per tutti, tranne che per quelli come me, che venivano da una zona ormai oltre frontiera. E così sono stato per 12 anni in seminario a Beit Jala, allora parte della Giordania, senza poter tornare a casa. Nel 1955 sono stato ordinato a Nazaret, grazie a una concessione speciale dei governi di Israele e della Giordania. Sono stato ordinato dal patriarca del tempo Alberto Gori. E l’ordinazione ha avuto luogo nella chiesa dei salesiani, perché all’Annunciazione erano già in corso lavori per l’edificazione della nuova basilica.
Attraversando questa terra non sempre è facile intravedere segni di pace e di speranza. Lei dove li trova?
Certo, non è facile intravedere segni di speranza in tempi di guerra e di disprezzo della vita umana. Eppure bisogna cercare di scorgerli… Io credo che un segno di speranza rimanga l’apertura dei popoli fra di loro. Oggi, più di ieri, le persone si incontrano e dialogano. L’Islam sta dialogando in varie forme con il cristianesimo e viceversa; le culture stesse stanno tentando di aprire varchi di comprensione reciproca mai prima immaginati. Solo la mutua conoscenza permette di non ritenere l’altro solo come un nemico. Sì, un segno di speranza è l’apertura. La stessa Chiesa cattolica è aperta al mondo. Benché umanamente deboli sappiamo che Dio sta operando in questo mondo e chiede a noi di avere la sua stessa fede e la sua stessa bontà: abitare la terra e riconoscerla come sua creazione. Dio è provvidenza e ci darà la forza di riprodurre la sua bontà tra di noi e questo, gliel’assicuro, è davvero una grande speranza per tutta l’umanità.
Per diverso tempo, lei è stato anche presidente di Pax Christi Internazionale. Cosa può fare la comunità cristiana per custodire il dono della pace?
Credo difendendolo e sviluppandolo. Anzitutto, come le ho detto prima, con una vita cristiana autentica, una vita tesa alla comunione profonda con Dio. Per questo, occorre riconoscere Dio come sorgente della pace. Riconoscerlo nella Parola, nell’Eucarestia e nei sacramenti, nella comunità cristiana che cerca di renderlo presente nella storia umana. È lui la fonte della pace e se vogliamo davvero fare la sua opera dobbiamo coltivare una vita spirituale intensa. E poi occorre farsi voce di questa pace. Stare dentro il mondo, sentirsi
responsabili di ciò che avviene, delle guerre silenziose che non occupano le prime pagine dei giornali, riconoscersi fratelli e sorelle di tutti coloro che sono esposti alla morte e all’ingiustizia in questi conflitti, alzare la voce – presso tutte le istanze internazionali – perché i diritti siano garantiti e tutelati; avere un legame con tutta la rete che oggi c’è nel mondo di quanti si battono a favore della pace e per disfare guerre e conflitti.
Gli ultimi Pontefici hanno più volte ripetuto che la pace ha il nome della giustizia e il nome del perdono. In una realtà come la Terra Santa cosa vuole dire questo?
Per noi credenti vuol dire avere la disponibilità a perdonare anche prima di vedere compiersi la giustizia. Occorre perdonare e, insieme, perseverare perché giustizia sia fatta. Bisogna saper perdonare colui che mi priva della libertà ma, insieme, esigere la libertà. Esigere quello che va esigito. Perché la libertà è un dono di Dio di cui io non posso disporre e non posso lasciarmi diventare servo o schiavo. Questo dono devo custodirlo e conservarlo in me stesso. Ma la giustizia da sola non basta. La vicenda di Gesù ci insegna che il perdono e la sofferenza per l’ingiustizia subita possono diventare redenzione a patto che non ci siano desideri di vendetta. È l’amore che ha fatto della passione di Gesù la redenzione del mondo. Questo vale anche per tutte le persone che soffrono: se sono capaci di credere nell’altro, nonostante tutto, la loro memoria non diventa vendicativa ma sorgente di rinnovamento di sé e degli altri. Il perdono rende la loro sofferenza causasorgente della loro propria redenzione. Occorre costruire rapporti di amore capaci di ricostruire legami tra le persone e i popoli e la memoria della sofferenza non può diventare occasione di rottura e di lacerazione. I cristiani di Terra Santa, in questo particolare momento storico, non hanno solo un ruolo politico quanto, piuttosto, di testimonianza e di riconciliazione.
Quando sarà possibile cominciare a intravedere la pace in Terra Santa?
Vede, i Palestinesi reclamano la loro libertà e la fine della occupazione militare israeliana. Gli Israeliani da parte loro richiedono la propria sicurezza. Questa doppia domanda, la libertà per i palestinesi e la sicurezza per gli israeliani, non è contraddittoria. Al contrario, l’una è condizionata dall’altra… Cuori amici sono la miglior sicurezza e le migliori frontiere. Sono molto più efficaci che gli eserciti e le rappresaglie… Una nuova generazione di leaders deve manifestarsi con una nuova visione, quella del mutuo rispetto e con la visione dell’altro che non è il nemico da odiare e da uccidere, ma il fratello con il quale bisogna costruire la nuova società palestinese e israeliana. Una nuova visione e un nuovo coraggio…
Una nuova visione che metta al centro la scelta della nonviolenza…
Si, certamente. La non violenza si fonda su due pilastri, uno più teorico, l’altro più pragmatico. Gesù ci ha detto: amate il nemico. Il nemico è quello che vi fa male, quello che vuole ammazzarti, rubare la nostra libertà. Amare il nemico non vuol dire amare il male che fa il nemico. Dio ama il nemico, non ama certo il male che fa. Amare il nemico vuol dire vedere l’immagine di Dio in lui malgrado il male che lui fa. Con questa visione, io divento più forte e posso dire al mio nemico: sei in errore, non hai il diritto di farmi dal male e di privarmi della mia libertà. Questa è la visione cristiana, difficile per tutti in tutto il mondo, non solo da noi. Ma c’è poi la ragione pragmatica: da cent’anni le due parti usano la violenza e nessuno ci ha guadagnato. Israele ha oggi il suo Stato, ma, come dicevo prima, non ha la pace e non ha la sicurezza. La gente ha paura. La violenza non ha portato a nulla. I palestinesi con la violenza hanno perduto tutto. Tutta la Palestina è nelle mani degli israeliani. Dunque, molto pragmaticamente, dico: dobbiamo cambiare strategia, proviamo la nonviolenza, che porterà certamente nuovi frutti. La forza militare non porterà mai a nessun risultato. Gli ebrei hanno l’esercito e persino la bomba atomica, ma non potranno sradicare l’odio… Non saranno mai liberi e sicuri veramente finché non sarà imboccata la strada della riconciliazione.
Eminenza, lei sottolinea spesso la drammatica situazione della comunità cristiana in Terra Santa che si sta assottigliando sempre di più. Quali sono le urgenze attuali dei cristiani delle sue terre?
La prima urgenza – per noi cristiani come per tutti gli abitanti della Terra Santa – è la pace, la fine di questo conflitto e la fine dell’occupazione dei territori palestinesi. Con questa fine si avrà la fine di ogni violenza, di ogni terrorismo e si avrà la sicurezza di costruire una nuova società israeliana e palestinese dove, finalmente, ci sarà collaborazione e dove potranno fiorire amicizie tra tutti e due i popoli. Adesso le urgenze sono legate, per lo più, dai danni procurati dalla situazione militare: l’assedio imposto, fino a non molto tempo fa, a tutti i villaggi e città; l’impossibilità per molti ad avere un lavoro; la fame e la miseria, certo non insopportabili ma che spingono molti cristiani ad emigrare.
Sono ancora tanti?
Sì, e questo è un primo risultato di queste sofferenze ma forse più grave ancora dell’abbandono è la progressiva decadenza morale, degradazione sociale, che riscontriamo dentro la nostra società. Questo è molto preoccupante anche per il prossimo avvenire. Chi emigra rimane sano e salvo e può ritornare ma per chi comincia una decadenza morale sarà difficile poi tornare indietro. Anche quando, in un tempo che pare ancora lontano, ci sarà la pace.
Cosa intende per decadenza morale?
C’è una diffusa criminalità, uno scarso senso della vita, della persona, della famiglia. In assenza di autorità, si legittima l’aggressione dell’uno contro l’altro. Tutto questo avviene oggi nella piccola comunità cristiana come in tutta la società palestinese. Non c’è autorità perché siamo occupati militarmente ma gli israeliani non si sentono responsabili dell’autorità pubblica. L’Autorità Palestinese non ha nessun mezzo, la polizia non c’è dappertutto e dove c’è non ha poteri. La gente è lasciata a se stessa e l’ordine dipende solamente dall’autorità morale di alcune persone dentro i paesi e le città. Non mi stanco di ripeterlo: abbiamo bisogno di pace, abbiamo bisogno di libertà. Abbiamo bisogno che i nostri figli possano andare liberamente a scuola, che le nostre famiglie possano essere in grado di pagare le rette scolastiche, che le nostre scuole possano andare avanti. È in gioco il nostro futuro. La Terra Santa è la terra delle radici, appartiene a tutti i cristiani. Patirne le sofferenze del momento non tocca solo ai fedeli che vi vivono ma a tutte le Chiese.
Lo ripete spesso: ciascuno di noi ha due Diocesi di riferimento…
Lo credo fermamente. Dovete capire che la responsabilità della presenza cristiana in Terrasanta non è solo responsabilità dei cristiani della Terrasanta; è la responsabilità di tutti i cristiani del mondo, di tutte le chiese del mondo. Per una semplice ragione: la vostra fede è nata qui, il giorno della Resurrezione, in quella tomba vuota a Gerusalemme. Perciò, anche voi dovete sentirvi cittadini di Gerusalemme. Essa non appartiene a noi cristiani, neanche agli ebrei o ai musulmani. Gerusalemme è patrimonio di tutto il mondo, di tutta l’umanità. Ognuno può dire che è nato a Gerusalemme, perché la sua fede è cominciata a Gerusalemme. Se ci pensate bene, ogni cristiano ha due diocesi di origine, la diocesi dove è nato e battezzato, e la diocesi di Gerusalemme.