Vivo contento in un mini alloggio di edilizia popolare alla periferia di Milano. Insolitamente silenzioso dall’inizio della pandemia. Niente bambini chiassosi che si fanno un baffo delle regole, niente genitori che comunque non ci sarebbero neanche in tempi normali.
Solo qualche piccione a becchettare le poverissime e stentate aiuole. Sono privilegiato perché abito al terzo piano e gli inquilini del terzo piano hanno un balcone, un piccolo balcone in realtà, dove ci sta a stento, oltre alla sedia, un vaso di rosmarino.
Tutti gli altri piani no, perché l’architetto, per giocare con le facciate, ha ideato un alternarsi di finestre per evitare l’effetto soviet.
Il cortile rievoca invece pienamente l’arte sovietica prima del crollo del muro: grigio, quadrato, con cartelli appesi con rigidi orari di gioco per i bambini che sciamano come le locuste d’Egitto, biciclette buttate sempre lì così, sul selciato anche sotto la pioggia.
Mi dichiaro intimamente felice di questa collocazione in casermone popolare. Mi fa sentire più vicino alla soglia di chi è ai margini per varie vicissitudini della vita.
Oggi ho potuto osservare un’insolita animazione: alle ore quindici in punto si sono presentati al portone quattro Carabinieri, tre uomini e una donna, devo dire proprio belli e impettiti e, sorpresa, carichi di pacchi della spesa della Esselunga.
Silenzio plumbeo per tutto il caseggiato e molte finestre si sono chiuse di colpo. Di fatto, i carabinieri portano al domicilio di famiglie disagiate un pacco spesa pagato da un anonimo benefattore destinato a chi la spesa non può permettersela in tempi di Covid–19. Benedetta Benemerita! Dall’altro balcone, il mio vicino in carrozzina, razzista e misogino, mugugna che non c’è più religione, dato che nella sua mente lo scopo della Benemerita è ben altro, “Ti rendi conto – mi apostrofa – a cosa sono ridotti i carabinieri? Io ho il loro calendario in cucina e sono così belli sulle loro moto, a cavallo, e ora cosa fanno? Portano la spesa”. Scuote la testa e con un fiero colpo di braccia rientra in casa.
Con lui entro subito in conflitto e ne esco quasi sempre sconfitto. Dovrò trovare tono e parole giuste, studiare la comunicazione non violenta, mi riprometto, e intanto ringrazio intimamente l’inizio della quarantena perché mi esenta, per legge, al dovere che sento imperioso di far visita ai miei vicini.
Dall’inizio della pandemia non mi reco neppure al centro di volontariato e, sono sincero, non ne sento la mancanza. Improvviso calo di sensibilità, di generosità da parte mia? Spiritualità in secca?
No, il problema è che, nella solitudine di questi giorni, sono emersi dettagli prima offuscati dall’ansia del dare. Dare vestiti, indirizzi, pacchi alimentari. Si dà il superfluo da parte di chi ha tutto, in misura diversa ovviamente. Io dò il mio tempo, la mia pazienza nell’ascolto, accettando le porzioni di verità che la persona mi offre.
“Mentono sempre” mi sento dire dagli amici volontari di antica militanza. Io replico che uno sconosciuto, al primo incontro, ha il diritto di mentire o nascondere pezzi della propria vita, l’unica che ha. Bisogna prima creare fiducia e reciprocità. Mi guardano con sospetto. Avrò ancora tempo per riflettere bene e decidere se tornare a fare parti uguali tra diseguali.
Rientro dopo aver salutato a distanza una giovane donna che non so proprio come faccia a tenere a bada le sue quattro figlie in quel piccolo spazio e ricaccio in gola il sentirmi privilegiato per avere persino un balcone.