Mettere al centro il “popolo” sicuramente è accattivante, anche controintuitivo, quando si è abituati alla cifra della società individualista, rischia però di diventare superficiale o di rimanere dentro un flusso di buonismo che racconta la bravura della gente ordinaria.
L’Incontro di studi delle Acli, svolto a Roma il 16 e il 17 settembre 2016 ha cercato di evitare queste derive, ha messo a fuoco il popolo lungo tre dimensioni: politica, sociale ed ecclesiale per riflettere poi sulla possibilità di rilanciare un senso di comunità, che permetta di passare dall’io al noi, dall’individualità del singolo alla relazionalità del cittadino, come ha evidenziato nella sua introduzione Paola Vacchina, la responsabile del Dipartimento Studi e ricerche.
Ne è emersa una figura poliedrica di popolo che rischia la dispersione verso un individualismo anarchico se non si recupera il valore della politica, la sua forza di fare sintesi tra desideri ed esigenze, tra singoli e collettivo. Soggetti capaci di evitare la dispersione ci sono: la chiesa, il sindacato, lo sport, l’associazionismo, il credito ne rappresentano una parte. Riusciranno se sapranno incarnare in modo nuovo il loro ruolo.
Negli interventi dei relatori, nel dibattito della tavola rotonda, nelle esperienze dei laboratori – le sintesi saranno pubblicate nelle prossime settimane – e in quella del pellegrinaggio giubilare si è tentato di rilanciare il metodo della pedagogia sociale delle Acli: per coniugare pensiero, azione, fare rete, coinvolgere attori in modo da contrastare le solitudini dell’isolamento, che è una tentazione diffusa da combattere a livello personale a livello associativo fino a raggiungere quello nazionale. Le storie comuni costruiscono un senso di popolo che siano le relazioni di una comunità, visibili nelle sagre dei paesi, che sia la coesione sociale e la maturazione dei legami tra sconosciuti, visibili nelle realtà della società civile organizzata, che siano le istituzioni validate dal patto costituzionale o i patti internazionali, come l’Unione Europea. Tutte definiscono, su basi diverse, identità di popolo dal locale al mondiale.
Tre dimensioni di un popolo
Stefano Folli ha affrontato il binomio democrazia e populismo. Il suo intervento illustra come il populismo europeo si sia sviluppato da una degenerazione della democrazia rappresentativa che oggi è alimentata da una crisi delle classi dirigenti e da una frattura tra istituzioni, autority, agenzie e cittadini che alimenta l’insoddisfazione. Il limite manifesto del populismo è di non riuscire a costituire una dirigenza capace di gestire il governo di società complesse. Si trova rimedio alla mancanza con la leadership carismatica. Per il giornalista politico il confronto tra democrazia e populismo è tra inclusione, a cui tende la prima, ed esclusione, a cui porta la seconda perché si identifica in forti pulsioni identitarie. Folli conclude evidenziando l’importanza di rivalorizzare la democrazia rappresentativa, attraverso il riavvicinamento tra il popolo e le istituzioni: «c’è bisogno di partecipare alla vita collettiva, e riempirla di sostanza. Va sostenuta la partecipazione veicolata dall’inclusione».
Nell’intervento della teologa Stella Morra si parte da una presa di coscienza forte: la consapevolezza che la chiesa italiana non sia più un’esperienza popolare. Negli ultimi trent’anni è stato disperso un capitale sociale e culturale. La Morra evidenzia l’importanza di chiarire la duplicità del termine popolo: ci si riferisce a una identità culturale diffusa, oppure a una parte specifica della popolazione, alla parte svantaggiata?
Nel primo caso appare opportuno non solo comprendere le proprie identità e memoria, ma anche risignificarle ogni giorno. Questo significa passare da una Chiesa pensata in struttura e funzioni a una chiesa improntata sull’esistenza, sulle questioni della vita che affronta la gente. Nel secondo caso si tratta di dare ascolto agli ultimi, di vivere il “confine” del popolo come periferia, come spazio aperto e indefinito. Avverte la teologa: «il popolo di Dio non è un’astrazione. È lo strumento per la redenzione di tutti. Tra il tutto e la parte non c’è solo un criterio di verificazione, le culture delle parti devono sperimentare un modo di trovarsi insieme». Per essere chiesa di popolo c’è necessità di nuove forme di chiesa che passino da un centro focalizzato sugli spazi a uno focalizzato sul tempo: dopo essere stati la piazza del villaggio dobbiamo diventare ariosa tenerezza, suggerisce la Morra.
Il sociologo Giovanni Battista Sgritta descrive la dimensione sociale del popolo e ne definisce la caratteristica culturale: un popolo è la sua storia, come affermava Benedetto Croce, si tratta quindi di trovare ciò che unisce: religione, costumi, linguaggi, comportamenti, forme di solidarietà. Quando Sgritta applica questa griglia agli italiani ne emerge la fatica di trovare i tratti unitari. Gli italiani appaiono dentro una logica di individualismo anarchico privo di legami solidali a lunga gittata. Per il sociologo storicamente non ci sono state molte occasioni storiche per cementare la coesione.
La principale occasione mancata avrebbe potuto (e dovuto) cogliersi nel Secondo dopo guerra con il periodo della Ricostruzione e il successivo miracolo economico, ma non siamo riusciti a trasformare gli sforzi personali per la crescita individuale in movimenti collettivi di sviluppo comune. Non siamo riusciti a costruire un welfare centrato sulle famiglie, quello che negli altri paesi europei ha garantito l’amalgama e la fiducia nelle istituzioni. Così, invece, di promuovere una filiera della solidarietà lunga, dove attraverso la fiscalità si sostiene un processo di riduzione delle disuguaglianze e un patto intergenerazionale, coordinati dallo Stato, ci siamo limitati a esaltare le virtù di una solidarietà corta, circoscritta alle reti di vicinato o di parentela che diventa alla fine una sorta di “individualismo allungato”. L’auspicio di Sgritta è di trovare una strada per «la costruzione di una solidarietà a maglie lunghe, quella che si instaura tra estranei, ma per ottenere questo obiettivo serve un catalizzatore a partire da uno Stato che dia il gusto che fare insieme, significa fare meglio, fare prima, fare meno».
Un ampio momento dell’Incontro di studi è stato dedicato ai Gazebo popolari: sette laboratori tematici su comunicazione, casa, lavoro, found raising, movimentismo e circoli. Le Acli hanno voluto provare insieme a esperti e testimoni le loro potenzialità e le loro capacità di essere popolari per rilanciare la loro presenza nelle comunità con la gente e vicino alla gente.
Due espressioni di popolarità sono state espresse da Cinzia Zanetti e Giovanni Malagò. La prima ha evidenziato l’espressione della pop art, che si distingue proprio per la ricerca di un linguaggio capace di comunicare al pubblico, alla massa, alle persone. Gli artisti Pop – evidenzia la Zanetti – comunicano attraverso immagini urbane: le strade, i poveri, i miserabili, al proletariato e alle sue invenzioni, alla cultura popolare, ai bambini e ai matti come spiegava Claes Oldemburg. Nell’arte entra nella quotidianità e nella realtà per interpretarla, forzarla e anche distorcerla. La pop art diventa una critica alla società di massa, come affermava Andy Warhol: «Le masse vogliono apparire anticonformiste, così questo significa che l’anticonformismo deve essere un prodotto per le masse». Così l’arte suggerisce di mantenere sempre distinte la massa, che omologa ed è uniforme, dal popolo che unisce conservando identità nella diversità.
La presenza del presidente del Coni ha testimoniato l’ampiezza della dimensione dello sport nella società, il forte radicamento nel tessuto delle comunità. Malagò ha evidenziato come le Acli attraverso l’Unione Sportiva sono un tassello di una rete che rende protagonisti i cittadini attraverso le più diverse attività sportive non solo con la pratica, ma anche con l’organizzazione.
Il patto che ci unisce e la riforma costituzionale
Un popolo contemporaneo si fonda su un patto, su un’alleanza, per noi questo patto è la Costituzione. Dentro questa prospettiva è da collocare l’intervento di padre Francesco Occhetta sj. Il gesuita, scrittore della rivista Civiltà Cattolica, ha in primo luogo evidenziato l’approccio laico con cui affrontare il testo costituzionale, che è da considerarsi una bussola per garantire l’orientamento di popolo e non un testo sacro. Nel tempo, se il popolo si riconosce con la sua storia, anche la Costituzione ha bisogno di rispondere alle esigenze e ai bisogni che cambiano. C’è una cultura della manutenzione costituzionale che non sacralizza le modifiche, ma le rende possibili. Allo stesso tempo ogni intervento di manutenzione va introdotto con estrema cautela dato che fonda un patto. É importante valutare allora le proposte di modifica in modo chiaro, critico, ed è importante promuovere il ruolo di pedagogia sociale che i corpi intermedi, come le Acli, hanno di alimentare il dibattito per stimolare la formazione di un’opinione pubblica.
In secondo luogo Occhetta evidenzia alcuni elementi che caratterizzano la riforma costituzionale su cui il 5 dicembre 2016 gli italiani sono chiamati a esprimere il voto: la modifica del bicameralismo; la riduzione del ruolo del Senato e la diminuzione del numero dei senatori; la calendarizzazione delle votazioni delle leggi; la possibilità di richiesta di verifica della costituzionalità della legge elettorale; il potenziamento della democrazia diretta con l’introduzione del referendum propositivo e la diminuzione del quorum per la sua validità, se si supereranno le 800mila firme raccolte; la calendarizzazione delle petizioni popolari, di modo che verranno dibattute in tempi certi; una diversa ripartizione dei poteri, più centralizzata, tra Stato e Regioni.
Alla relazione di Occhetta è seguita una tavola rotonda sull’incidenza sociale dell’applicazione della riforma. Luigi Bobba, sottosegretario del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ha evidenziato la necessità e opportunità di ricostruire una relazione tra cittadini e istituzioni: c’è un circolo virtuoso che si è interrotto tra società civile e politica e la riforma potrebbe essere un’occasione di rilancio. Giuseppe Guerini, presidente di Federsolidarietà, ha sottolineato il bisogno di distinguere tra popolarità, che si pone al servizio della vita del cittadino, e populismo, che rende gli individui una massa priva di soggettività. Marco Bentivogli, Cisl, avverte che qualsiasi sia l’esito della riforma è necessaria una nuova cultura costituzionale del nostro Paese e che la società civile deve tornare ad assumersi un ruolo educativo.
Ha concluso l’Incontro di studi l’intervento del presidente delle Acli Roberto Rossini, il quale ha ribadito il ruolo di una buona politica per rispondere alla rivalutazione della democrazia rappresentativa e arginare la deriva populista: «è la politica che frena le pulsioni collettive di morte e i desideri narcisistici individuali… Istinto e sentimento non si reprimono, pena gravi danni: vanno accompagnati dalla freddezza della “testa”, del ragionamento, dell’educazione, della formazione. Un popolo è veramente tale quando istinto, cuore e testa si accordano per dare forza e intelligenza alle decisioni».