Un dialogo con don Armando Matteo
Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana
Don Armando Matteo è uno dei teologi italiani che conviene sempre tener letto. I suoi libri hanno il pregio di mettere a fuoco, spesso in anticipo rispetto a tanti, alcune coordinate della cultura contemporanea, colte nell’ottica di una sana “provocazione” alla vicenda cristiana. La sua preoccupazione è quella di custodire, anche nel tempo presente, la bellezza del cristianesimo, sempre generativo e capace di andare oltre i modi e le parole scontate con cui, per pigrizia, i cristiani lo testimoniano.
Sin dai tempi de “La prima generazione incredula” (2010, Rubbettino) quando evidenziava il difficile rapporto tra i giovani e la fede, fino al suo ultimo, intrigante, “Evviva la teologia” (2020, San Paolo), don Armando – docente di Teologia fondamentale alla Pontificia Università Urbaniana e già assistente nazionale della FUCI – offre sguardi divergenti e porta le questioni teologiche fuori dai soliti recinti e dalle solite accademie.
È così anche per un libro che ha pubblicato la settimana di marzo coincidente con il primo lockdown. Pastorale 4.0. Eclissi dell’adulto e trasmissione della fede alle nuove generazioni (2020, Ancora). L’avevo letto subito allora ma l’ho ripreso in mano in queste ultime settimane, trovandolo, di nuovo, un libro molto stimolante, da far leggere a tanti parroci. Anche dalle nostre parti.
Don Armando, questo tempo ulteriore di lockdown cosa sta chiedendo a noi cristiani?
È bene iniziare dal riconoscere che oggi ci troviamo di nuovo in una condizione difficile sia come cittadini che come cristiani. Forse nessuno di noi attendeva, per questo autunno, una recrudescenza così violenta della pandemia da Covid-19. Questo virus è davvero un “nemico” infido. E questa nuova forma di lockdown, che è necessaria per combatterlo, in attesa del vaccino, ci mette di nuovo seriamente in crisi. Psicologicamente ed economicamente. E mette di nuovo in crisi la comunità cristiana. Forse è anche giusto riconoscere che, come cristiani, nei mesi estivi, non abbiamo lavorato molto per prepararci a tutto questo.
Della pandemia abbiamo parlato, troppo spesso, come di evento passato e non come qualcosa che era ancora in mezzo a noi. Ora ci tocca stare accanto alle persone che sono più in difficoltà per come possiamo, con la liturgia e con la carità. Ma questo tempo di nuovo “sospeso” potrebbe essere anche l’occasione per fare quello che ancora non abbiamo fatto: interrogarci sul quel necessario cambiamento di mentalità pastorale che la pandemia ha reso ancora più evidente. Non siamo ancora all’altezza del tempo che ci è dato di vivere.
Il tuo libro – Pastorale 4.0 – nasce dall’urgenza di lasciarsi interrogare, come cristiani, dalle sfide del tempo presente. Cogliere il radicale cambiamento che ha toccato il modo di essere al mondo della popolazione adulta è la prima consapevolezza che manca ai cristiani di oggi.
È proprio così. La crisi del cristianesimo oggi è la fatica di dare alla luce nuovi cristiani. È la fatica della trasmissione della fede. I ragazzi e i giovani che pur attraversano gli attuali luoghi ecclesiali alla fine dei conti poi vivono in un’indifferenza crescente rispetto all’universo dell’esperienza religiosa. Giustamente Garelli parla di “ateo-agnosticismo” delle nuove generazioni. Solo per citare un dato, l’Istat ci ha fatto sapere che, durante il lockdown primaverile, il 64,9% dei giovani italiani non ha mai pregato. Ma un cristianesimo che non “genera” nuovi cristiani a che serve?
Questo è a mio avviso l’unico grande problema della Chiesa oggi. Un problema che neppure il Sinodo sui giovani del 2018 è riuscito a fissare con la giusta determinazione. E questo problema, questa sfida non la si affronta solo con il web, solo con un nuovo messale, solo parlando di più di ecologia, solo con qualche impacco di spiritualità da ospedale da campo. Qui ci vuole una rivoluzione!
Una rivoluzione che si lasci guidare dall’evento più radicale mai accaduto nella storia recente: l’adulto è morto!
Nessuno che oggi abbia più di trent’anni ha intenzione di essere adulto, cioè responsabile, generativo, dedito alla cura dell’altro, “buon samaritano” (per citare l’ultima enciclica del Papa). Oggi celebriamo, al contrario, il trionfo del narcisismo, dell’individualismo, del cinismo e dell’egoismo! Che derivano ultimamente da quella potenza di vita che ci attraversa da ogni parte e che proprio il coronavirus morde tremendamente, facendoci spesso letteralmente “impazzire”.
Scrivi, citando Einstein, che non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare sempre le stesse cose. E hai parole severe sull’amministrazione dei sacramenti, “autentici autogol del sistema ecclesiale contemporaneo”. Prova a spiegarti.
In anni recenti, le trasformazioni che hanno provato a cambiare la nostra mentalità pastorale sono state di tipo “omeopatico”. Stiamo ancora pensando di risolvere tutto con una sorta di “pastorale del cambiamento”: cresima a 12 anni? Ma no! È meglio a 18 anni, meglio ancora al momento del Battesimo. 6 incontri per il matrimonio? Ma no! È meglio farne 12. Catechismo ai piccoli di una stessa età in Chiesa o all’oratorio come a scuola? Ma no! È meglio farlo in famiglia a piccoli gruppi. E poi, passato qualche anno dal cambiamento, si ritorna al punto di partenza. Da troppo tempo, siamo in una sorta di eterno gioco dell’oca pastorale da cui si può uscire solo avanzando un sano e realistico cambiamento della pastorale.
L’attuale prassi sacramentale non funziona più.
I neocomunicati scompaiono già la domenica successiva a quella della prima comunione e non parliamo dei neocresimati o delle coppie appena sposate e cosa dire dei funerali ai quali nessuno conosce più neanche una minima risposta prevista dal rito? I preti sanno tutto questo. Ci soffrono. E molto. E, tuttavia, non ci decidiamo di pensare questo dolore, questa sofferenza.
La questione di fondo, è che ritieni la mentalità pastorale che governa la vita spicciola delle parrocchie non più all’altezza della situazione
Esattamente. Noi pensiamo di dover offrire ancora una qualche luce e una qualche speranza e una qualche consolazione ad adulti – e a persone che si preparano a diventare adulti – destinati ad un confronto con un reale ruvido e traumatico, segnato privazioni, fame, guerre, malattie, invecchiamento precoce, morte sicura prima dei 60, afflosciamenti vari, condizione domestica particolarmente onerosa e frustrante, ignoranza senza limiti, scarsissime possibilità di autopromozione e via di seguito. Insomma noi immaginiamo di dovere “una parola di grazia” a gente che, oltre a pregarla, vivrebbe le dinamiche di cui parla la Salve Regina.
Ma li abbiamo guardati gli adulti e le adulte di oggi?
Dico i quarantenni e le quarantenni, i cinquantenni e le cinquantenni, i sessantenni e anche i settantenni e le loro coetanee? Il presidente Biden – e neppure il nostro Mattarella – sono più tipi da Salve Regina!
Neanche il coraggioso magistero di papa Francesco – che tu richiami parlando della necessità di una “pastorale dell’incrocio” – intacca questa logica.
Francesco dice una cosa semplice alla Chiesa: All’uomo e alla donna di oggi, all’adulto in particolare, noi dobbiamo una sola cosa. Invitarlo a comprendere che solo l’investimento su Gesù, sul suo Vangelo, su un rapporto di preghiera con lui e di fraternità con tutti, può salvaguardare tutto ciò che di bello possiede e ha conquistato, senza lasciarsi possedere e conquistare da tutto ciò che possiede e ha conquistato.
Da qui il suo invito ad una pastorale del contagio (mai parola fu più azzeccata, oggi!), ad una pastorale del rinvio a Cristo, ad una pastorale che permette, alla fine dei conti, di rendere i luoghi dove i cristiani si incontrano – cristiano è colui che profuma di Gesù – luoghi dove chiunque possa incrociarsi con Gesù e innamorarsi di lui. Sentirne il profumo, lasciarsene rapire. E riattivare così quelle dinamiche di cura, generatività, di umanesimo del dono di cui c’è oggi così tanto bisogno come controcanto profetico e salvifico alla potenza di vita conquistata da ciascuno di noi.
E noi stiamo ancora qui con la nostra pastorale del cambiamento! E la cosa si capisce pure.
Cambiare è sempre accettare di perdere qualcosa. È sempre un’esperienza di “morte”.
Far finta di cambiare è più facile. Ma si deve cambiare. E alla Chiesa italiana questo costa tantissimo. Abbiamo un passato glorioso. Ma, per non perdere e perdersi del tutto, è bene perdere qualcosa!
Sostieni che serve una rivoluzione copernicana della mentalità pastorale. Su quali scelte di fondo? Su quali strategie e azioni pastorali?
La scelta di fondo è questa. Non c’è più bisogno di un cristianesimo che lavori sul bisogno di consolazione. L’adulto che ci chiede consolazione non c’è più. E con lui purtroppo si è fortemente opacizzato anche quel tratto dell’adultità che si manifesta nello spendersi perché la vita sia per tutti una possibile benedizione. E questa è una notizia ambivalente. Inutile girarci intorno: stiamo meglio, noi occidentali, rispetto a qualunque stagione della storia della nostra specie. E avremo la meglio anche sul Covid-19. Rischiamo, però, di non avere la meglio sul nostro egoismo, sul nostro narcisismo, sul nostro individualismo. E questo peserà soprattutto per i nostri figli, già in affanno di futuro e di spazi di protagonismo. Ecco allora che il cristianesimo può diventare un luogo di sana vaccinazione, un luogo in cui risvegliare in noi quel “buon samaritano” addormentato nel mercato e nella cultura massmediale.
Il Vangelo di Gesù ci libera da un uso sfrenato e alla fine tossico della potenza di vita che abbiamo conquistato. E di cui andiamo giustamente fieri. E lo fa per il nostro bene e per il bene dei nostri figli.
È ora di passare da un cristianesimo della consolazione ad un cristianesimo dell’innamoramento. Concretamente, cosa significa?
Significa mettere in circolazione quel segreto dell’umano che Gesù ci ha consegnato, una volta per sempre, in parole e gesti, e che potrebbe davvero fare la differenza anche oggi:
la forma più alta e completa della gioia è quella del dare gioia.
Gli adulti di oggi non chiedono più alla Chiesa una parola di consolazione. Sono sufficienti i virologi e i medici. Chiedono di sapere come poter anche oggi “salvare” la propria anima, dopo aver sul serio conquistato il mondo. E il segreto di tale salvezza è proprio questo: legare la propria esistenza a Gesù e al suo Vangelo. Legare la propria esistenza alla logica del dono e della generatività. Innamorarsi di colui che ci ha detto che c’è più gioia nel dare che nel ricevere e che questo vale di più proprio per chi ha di più. Il segreto è l’impegno indefesso a rendere gli altri felici – il proprio marito, la propria moglie, la prole, i parenti, i vicini di casa, i concittadini, i connazionali, gli uomini e le donne di tutto il mondo. Questa è la strada per essere davvero felici a nostra volta, per salvaguardare la propria anima. Anche dopo che hai conquistato il mondo intero.
Parli di dieci passi per inaugurare la Chiesa del futuro…
Non potevo terminare un libretto sul cambiamento della pastorale, senza indicare qualcosa di “concreto”, qualche passo possibile subito. Niente di miracoloso, sia chiaro. Ma almeno un punto d’avvio, d’inizio, un “motivetto” su cui costruire la musica nuova di cui abbiamo bisogno. Quando si deve partire, si deve partire da qualche parte. Ed ecco allora che il libretto chiude su una sorta di rapido decalogo di una pastorale dell’incrocio, del contagio, dell’innamoramento, di cui mi permetto di citare i diversi incipit, confidando di stuzzicare l’appetito di qualche confratello e di qualche animatore o animatrice pastorale. Il tempo ora non ci manca per leggere, per pensare, per cambiare, per rivoluzionare.
1. “Comunque vada, da qui non te ne andrai prima di esserti incrociato con Gesù e, speriamo, innamorato di lui”
2. Gesù non è Babbo Natale!
3. Mai senza gli altri
4. Trova una rosa e troverai te stesso
5. La grande profezia: i giovani sono la risposta
6. Il dono della preghiera
7. Recuperare il senso di comunità
8. Aggiornare, aggiornare, aggiornare
9. Patto educativo parrocchiale
10. I canti sono importanti quanto l’omelia.