A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita cristiana
Quindici anni fa moriva Mario Luzi, forse il più grande poeta italiano del Novecento, certamente uno dei più grandi al mondo.
Negli anni Trenta aveva collaborato alle più importanti riviste dell’avanguardia letteraria, scritto poesie, saggi e opere teatrali, insegnato Letteratura francese all’università.
Candidato più volte al Premio Nobel per la Letteratura, Luzi – nato a Firenze nel 1914 – è stato il poeta della meditazione sul destino individuale, sul rapporto tra tempo umano effimero ed eterno.
Intellettuale di grande respiro, curioso e aperto come pochi, Mario Luzi è stato l’autore del testo della Via Crucis, guidata da Giovanni Paolo II nella suggestiva cornice del Colosseo, del 1999.
Poco prima della sua morte mi è capitato di incontrarlo nel suo piccolo appartamento in via Bellariva, poco distante dal centro di Firenze. Dallo studio, dove abbiamo conversato a lungo, si vedeva, in lontananza, la cupola di Santa Maria del Fiore che troneggia, padrona e custode dell’antica città.
Questa è la trascrizione dell’intervista.
Professore, che cosa ha provato quando le chiesero di scrivere i testi per la Via Crucis del Papa?
Di fronte alla proposta provai sgomento: mi rendevo conto dei miei limiti, ma anche delle mie abitudini letterarie. Per non parlare delle questioni di coscienza: cerco di essere un credente sincero, ma non sono un osservante minuzioso. Dubitavo di essere all’altezza morale e di avere la fede e la buona fede necessarie, l’autenticità e la sincerità. Ho dovuto fare un esame di coscienza non facile. Non avrei mai immaginato una richiesta del genere. A questo tema ho pensato, è ovvio, e forse avrei potuto scrivere qualcosa anche senza richiesta. Ma scrivere per il Papa… Dissi pertanto di no alle insistenze dell’ambasciatore e del vescovo Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie. Accompagnandoli alla porta, mi venne però un’idea… Avrei cioè potuto impostare questo lavoro da un punto di vista del tutto umano e mi balenò in mente questa idea del parlato di Gesù…
“La Passione” è un monologo di Gesù che si rivolge al Padre. Qual è il messaggio del testo?
Sono convinto che senza la Resurrezione tutto sarebbe stato fatto invano e avremmo veramente perduto il nostro tempo, avremmo sofferto e saremmo stati tribolati inutilmente. Lo dice l’apostolo Paolo: “Se Cristo non fosse risorto inutile è la nostra fede”. Dai luoghi orrendi passa la via della Resurrezione. Accanto alla sofferenza umiliante, fisica, traspare dal testo una sofferenza morale: l’accesso al Paradiso, il ritorno al Padre è così difficile, così penoso, così contrastato interiormente perché l’uomo e Dio convivono in Cristo e lui si deve liberare dell’uomo. È un contrasto interiore molto forte. D’altronde, Gesù attraversa il tragico, non lo schiva…Noi siamo invece in una cultura che se può lo evita…
Un altro contrasto presente nel testo è quello tra bene e male…
Si scontrano continuamente. Cristo sente la presenza del male e a un certo punto dubita lui stesso di aver fallito la missione che gli è stata affidata. Ma sono dei momenti di caduta che il mistero della divinità risarcisce facendo rinascere la speranza. Quello del male resta comunque il mistero dei misteri e Cristo lo vive da vicino ammettendo che il male non è stato definitivamente sconfitto e che il Regno deve ancora venire. Lo vive con la coscienza che la crocifissione è il prezzo del riscatto umano. Quindi, male e bene insieme.
Uno dei temi della “Passione” è certamente quello della morte. Personalmente è un tema che la angoscia?
No. La morte mi ha molto preoccupato e angosciato quando ero giovane e quando ero nel pieno della maturità. Poi ho sempre più voluto pensare alla vita e la morte l’ho data come qualcosa di scontato. Anche oggi che sono evidentemente alla soglia, la morte non è un problema. È una cosa che mi sembra oramai di avere allineato tra le diverse possibilità dell’essere. Devo dire che man mano si avanza nell’età, gli amici, i compagni di generazione, di lavoro, sono in gran parte di là. È una specie di legamento, di collegamento, tra vita e morte che quasi non frappone più quella specie di oscurità abissale che mi angosciava un tempo. Forse siamo già morti in parte – quando si muore siamo già morti molte volte – o forse abbiamo fissato canali e rapporti con una vita già altra..
Per il laico Luzi quale è stato il rapporto con l’esperienza religiosa?
Ho avuto un’iniziazione familiare – mia madre, in particolare – che ho accolto pienamente, anche se nel corso della vita ho avuto periodi di distanza e di indifferenza. Il fondamento religioso materno, consegnatomi da una donna semplice ma appassionata alla vita, certamente non bigotta, mi ha molto sostenuto. Mio padre si è avvicinato alla fede cristiana in tarda età. Era un liberale risorgimentale: non era irreligioso ma distante. L’eredità di mia mamma l’ho ritrovata – in modo compiuto – in un coltissimo sacerdote di Pienza, don Flori, con cui ho condiviso l’amicizia e la passione per i libri e la cultura. È grazie a lui, a Sant’Agostino e a tutta la tradizione agostiniana francese, da Pascal fino a Mauriac, che ho ravvivato il seme che mia madre aveva gettato e coltivato.
Lei è un poeta che riesce ad esprimere il senso di infinito proprio dell’uomo. Come la parola può dire l’esperienza religiosa?
Non glielo saprei dire neanch’io. L’importante è che l’esperienza religiosa non si presenti come altra da quella umana; che non sia specifica ma sia la vita stessa. Per questo insisto sempre con questa educazione materna perché, insomma, è da lì che mi sono confrontato e cresciuto. Certo, se si comincia a voler specificare il religioso, probabilmente questo irrigidisce la capacità percettiva del vivere, dell’essente, e del vivente in ogni caso. E anche del dicibile.
È di questi giorni la notizia della clonazione di una bimba. Se pure risultasse – come probabile – una notizia infondata sappiamo che molti laboratori, in tutto il mondo, stanno lavorando attorno a questa possibilità. La spaventa tutto questo?
Sì, moltissimo. È una bestemmia, in senso religioso ma anche umano. Se presume con questa sua “scoperta” di aver dato la vita, se davvero riduce la vita a questo, cioè a una pura combinazione di elementi, l’intelletto dimostra tutta la sua piccolezza. La vita è una cosa enorme, di cui fa parte anche chi presume di crearla. Tutto ciò conferma disastrosamente i nostri limiti, anche intellettivi. E ci lascia una dolorosa idea di povertà, e anche di sconfitta.
Lei è molto preoccupato del futuro dell’uomo…
Ci sono fatti che ci inducono a dubitare. Con il rischio che potrà esserci in futuro un’altra specie umana senza umanità. La stessa tecnologia, senz’altro prodigiosa, se è senza regole rischia di dare adito ad una umanità senza humanitas.
Cosa la inquieta maggiormente?
Due fatti, uno apparentemente semplice e l’altro più evidente. Che le parole stiano perdendo progressivamente il loro significato. A volte, ho l’impressione che non ci sia più il rapporto fra le cose oggettive, la realtà spirituale e la parola. Mi sembra ci sia una separazione insopportabile fra la “cosa” e la “parola”, fra il linguaggio che abbiamo ricevuto, e cerchiamo di salvaguardare, e ciò che avviene. Si inaridiscono i sentimenti, si perde la capacità di sognare. Per questo Dante oggi ci sembra un prodigio. Perché lì c’è questa aderenza, sorgiva tra l’altro.
È un fenomeno che caratterizza il nostro tempo?
Oggi mi pare che manchi la dimensione della semplicità. Non si riesce più a dire una cosa direttamente, ci vuole la circonlocuzione, ci vogliono tutte le astuzie del decoro… Anche la poesia di questo ultimo secolo, in un certo senso, è un po’ così. Il commento, la riflessione o la descrizione capillare, abusiva in un certo senso, rischiano di prevalere sulla missione vera e propria: il rapporto tra cosa e parola.
E l’altra cosa che la inquieta?
L’assuefazione crescente agli scempi ovunque commessi e a chiunque tocchino! Lo scempio dell’umano! Ciò che pesa è la perdita di valore della stessa vita umana.
Eppure a volte pare che non tutte le vite siano uguali…
È la legge dello spettacolo dalla quale pare che non possiamo sottrarci. Le Torri Gemelle sono state fatte vedere e rivedere. Mostrate. Una grande tragedia è diventata un grande spettacolo, e alla fine ha finito con l’obbedire alle leggi dello spettacolo, non a quelle della tragedia. Lo scempio delle due torri colpisce per la ferocia. Ma dovremmo essere colpiti anche dalla morte di milioni di bambini in Iraq, in Africa, nel sud del Brasile o in India, dove l’esplosione di una fabbrica chimica provocò 16 mila morti. Non abbiamo alzato la voce contro queste ingiustizie. Anzi, non abbiamo mai detto una parola. Abbiamo solo taciuto. No, il terrorismo non ha giustificazione, ma la realtà, come risulta dalla storia, è molto più complessa e difficile da spiegare. Quello che vediamo è solo un aspetto della questione: è solo il primo piano. Dietro di esso ci sono altri piani e sono questi a determinare lo sconvolgimento dell’umanità sul pianeta. Come non accorgersi che l’ingiustizia trabocca da ogni parte, travalica ogni limite e ogni regola? È la cosa più visibile se ci pensiamo. È una crisi planetaria di cui il terrorismo è un aspetto riconoscibile, se lo circoscriviamo.
Una volta disse che solo la poesia ci potrà salvare. Lo ripeterebbe oggi?
Sì. Nella poesia è scritta l’umanità. La poesia ci sarà finché nell’uomo ci sarà humanitas perché il senso della poesia è di richiamare l’umano. Attingendo alla lingua profonda dell’uomo ha questo ufficio di perpetuare l’umano e di proiettarlo nelle eventuali evoluzioni ma sempre nella continuità del principio. Non solo per la poesia in sé, ma come concezione fondante del parlare e dell’ascoltare. La poesia non solo come atto creativo, ma anche come dimensione dell’umano che si esprime per qualcuno che ascolta. Questa dimensione è in pericolo, ma se la poesia resiste, e se resiste l’umano, allora ci potrà essere salvezza. Almeno lo spero.