Circola in tutto il mondo, e quindi anche in Italia, un’insana voglia di armi: è come un vento cattivo, che accompagna il crescere dell’aggressività nei rapporti sociali e politici e sembra trovare sfogo solo nell’inevitabilità del confronto violento. Questo fenomeno si manifesta anche nelle decisioni che vengono prese in sede parlamentare, non ultimo il parere espresso il 5 aprile scorso dalla Commissione Finanze del Senato per l’abolizione dell’IVA e dell’accise per la vendita delle armi italiane e poi la modalità con cui è stata gestita la questione dell’aumento al 2% delle spese per la difesa (che solo i Cinque Stelle con il Presidente Conte hanno avuto il coraggio di contestare). Oggi non si può parlare di pace senza essere tacciati per filo-russi o come traditori della resistenza. Siamo ancora liberi di dire che la vita di ogni uomo è degna, che la guerra è un abominio e che va bandita dalla storia? La posizione delle Acli è questa, sapendo chi è l’invasore e chi sta subendo questo deliberata, insensata invasione. Non siamo stati sul divano a commentare i fatti ma siamo andati a Leopoli a portare la nostra solidarietà, a capire cosa si può fare sul piano politico e sul piano interreligioso per stare al fianco del popolo Ucraino, e stiamo già inviando aiuti mirati in base alle richieste che ci sono state fatte. Sappiamo perciò che c’è un popolo crocifisso e conosciamo chi invece sta mettendo i chiodi su quella croce. Sappiamo bene che agli orrori di Bucha e ad ogni altra nefandezza compiuta dall’esercito Russo deve essere dato un nome, e per ogni morto, per ogni violazione, dovrà essere trovato e punito ogni colpevole, secondo la Giustizia Internazionale. Ogni vita spezzata, ferita, deve avere la sua verità, bisogna uscire dall’anonimato in cui l’informazione li ha costretti e chiedere giustizia. Ma la guerra non si può alimentare, se vogliamo davvero porre fine a tutto questo perché inviare armi è come mettere benzina sul fuoco. L’uomo, la creatura più simile a Dio, è anche capace di diventare più feroce delle bestie, non possiamo alimentare sentimenti di odio, di rivalsa e di rivendicazione che allontaneranno sempre di più le vie della pace.
Ogni vita è unica, preziosa, degna e va rispettata e bisogna fare di tutto perché anche una sola vita in più sia salva. Questo non significa negare la realtà perché ci sarà un tempo, appena terminato il conflitto, in cui la verità dovrà essere cercata e trovata a tutti costi. In questa Pasqua carica di speranza ed insieme di dolore, si staglia la scelta di donne ed uomini di buona volontà di provare ad uscire dal circuito mortifero che rischia di avviluppare l’intera umanità, e l’appello del Papa è duplice: da un lato ai credenti , ai quali in sostanza chiede se e quanto tengano conto del Vangelo nella loro vita quotidiana e nelle scelte piccole e grandi che debbono prendere ogni giorno. Dall’altro a tutte le persone che onestamente si interrogano sul futuro del mondo perché riflettano sulla necessità di superare il meccanismo di morte a cui troppo spesso ci arrendiamo perché “si è sempre fatto così”. Da qui derivano scelte forti, come quella di chiedere a due donne, un’ucraina e una russa, di portare la croce ad una stazione della Via Crucis al Colosseo, una scelta che non è stata capita – ed è l’aspetto ancora più doloroso- dalle vittime di questa guerra, cioè gli ucraini, ivi compresi alcuni uomini di Chiesa, che non hanno saputo cogliere la forza evangelica di questo appello alla riconciliazione. Una riconciliazione, si noti bene, che non esclude in alcun modo l’individuazione delle responsabilità: fin dall’inizio della guerra il Papa ha usato chiaramente parole come “aggressione” ed “invasione”, e ha manifestato solidarietà concreta a coloro che la meritano poiché sono vittime. È l’errore più comune, nel giudicare le azioni di resistenza e difesa nonviolenta: pensare, cioè, che esse si basino sul principio che tutti sono uguali, che le ragioni degli uni valgano quelle degli altri. No, il militante nonviolento ha perfettamente chiaro dove stia l’oppressore e dove l’oppresso, come lo ebbe chiaro Gandhi, ma la differenza sta nel fatto che egli sposta la resistenza al male su di un a dimensione diversa in cui l’oppressore si ritrova spiazzato perché non è più lui ad imporre le regole del gioco. Non è una via semplice né di primo acchito risolutiva – ma sono risolutive le guerre, soprattutto in tempi fluidi come questi dove non è mai possibile distinguere nettamente fra inizio e fine dei conflitti?- e richiede un coraggio a chi vi si cimenta che non è inferiore a quello di chi sceglie di imbracciare le armi. È da questa incomprensione che nasce anche il clima negativo che si respira nel Paese e che rende la discussione pubblica sempre più difficoltosa e polarizzata, al punto tale che realtà associative come l’ANPI, le cui posizioni possono essere più o meno discutibili come tutte in un contesto democratico, vengono investite da accuse generalizzate ed irresponsabili.
Nello stesso tempo, in termini realistici, sappiamo che la questione del mantenimento di una forza armata è consustanziale all’affermazione della sovranità e dell’integrità delle Nazioni, e uno degli effetti più disgraziati dell’aggressione russa è stato quello di indurre Paesi tradizionalmente neutrali a prendere in considerazione l’ipotesi di adesione alla NATO per garantire la propria sicurezza. Tuttavia, proprio prendendo spunto dall’innalzamento delle spese militari, ci si potrebbe domandare se non sia giunta l’ora di declinare anche sotto il profilo della difesa comune l’integrazione comunitaria europea, superando definitivamente la logica bipolare per dare all’UE quel profilo politico la cui assenza viene generalmente deplorata. Fu la grande intuizione di De Gasperi, che alla costruzione della Comunità di difesa europea dedicò le sue ultime forze, poiché intuiva che anche attraverso questo percorso passava la possibilità di creare una soggettività europea di alto profilo politico: non a caso la bocciatura del progetto della CED condannò l’Europa a diventare la scacchiera su cui si giocava una partita fra due Potenze che all’Europa erano (e sono) estranee.
Oggi, invece di inviare armi o di spendere le risorse del Pnrr per la base militare di Coltano, servirebbe uno sforzo collettivo, da parte delle istituzioni e del mondo associativo, per fermare un esodo senza controllo a cui assistiamo inermi, un dramma nel dramma che la buona volontà di tanti cittadini non può certo fermare: organizziamo l’accoglienza con un unico Piano Europeo per i profughi pensando non solo a cibo e alloggio ma al loro sostegno psicologico, e poi all’inserimento nelle scuole e nel sistema produttivo. A L’viv (Leopoli) le autorità locali ci hanno chiesto di pensare all’istruzione dei propri figli, con grande lungimiranza perché sanno che anche se la guerra finisse oggi ci vorranno mesi, forse anni, per tornare alla normalità. Quello che conta è non spezzare le vite ma dargli una dignitosa continuità, anche e soprattutto quando si trovano in un paese straniero.
L’amarezza di fondo sta nel constatare come la crisi ucraina, determinata dalla volontà di potenza di Putin e dei suoi accoliti, abbia avuto l’effetto di ricacciare indietro il mondo di ottant’anni, di polarizzarlo in una nuova guerra fredda e, soprattutto, di destinare alla produzione e all’acquisto di armi sempre più letali immense somme di denaro che avrebbero potuto essere utilizzate per prevenire e combattere le pandemie, per lottare contro la desertificazione e favorire la transizione ecologica, per dare pane, lavoro e medicine ai poveri di tutto il mondo.
A questo non possiamo e non dobbiamo rassegnarci.
Emiliano Manfredonia, Presidente nazionale ACLI
Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 20 aprile 2022