Come tutti i Paesi europei l’Italia non è immune dalla piaga della povertà, a differenza di questi però essa non possiede un piano universalistico contro questo grave problema.
Ciò crea una situazione paradossale per cui nel nostro Paese si può essere poveri, la povertà è una condizione ammissibile, con buona pace della Carta Costituzionale.
La nostra Costituzione, infatti, afferma nell’articolo 3 che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, che non possono esistere distinzioni dovute al ceto, al genere, alla religione. Il principio egualitario costituisce l’ancora che fissa l’Italia al civismo, alla modernità e alla democrazia. Ma la Carta non si limita a questo, sostenendo che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”, attribuisce allo Stato il compito di eliminare concretamente tutte le barriere che limitano, riducono e impediscono che i cittadini siano effettivamente uguali.
La domanda a questo punto è: cosa si sta facendo per rimediare a questa evidente mancanza?
L’attuale Governo ha messo in campo un Fondo per la lotta alla povertà. Si tratta di 600 milioni di euro per il 2016 e di 1 miliardo di euro per il 2017. Soltanto nel 2017 sarà creato un unico strumento di lotta alla povertà, condizionato “all’adesione a un progetto personalizzato di attivazione e inclusione sociale e lavorativa”. Una misura che verrà concessa in base a criteri unificati di valutazione Isee della condizione economica, che lo scorso anno il Governo ha riformato rendendoli più restrittivi.
Pur costituendo un passo in avanti, frutto anche della pressione che l’Alleanza contro la povertà (un patto aperto tra numerosi soggetti sociali) ha saputo fare sul piano politico, il provvedimento è ancora molto lontano dal modello suggerito dalla stessa Alleanza, ossia il Reddito di inclusione sociale (il Reis). Ciò perché il Governo si limita a rafforzare le misure già esistenti, che come è noto non si sono dimostrate molto efficaci, e non ne prevede di nuove. Inoltre, i finanziamenti previsti sono condizionati dai risparmi sull’assistenza e per i servizi locali sono previsti soltanto i fondi provenienti dai finanziamenti europei. In sostanza, non sarebbe garantita la continuità delle misure, condizionate dall’inevitabile fluttuazione delle risorse.
Ad oggi, dunque, nonostante le rassicurazioni fornite dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti, durante il recente incontro con l’Alleanza non sembrano essere superati i limiti citati.
Il nodo dei finanziamenti continua a rimanere la vera spada di Damocle che grava sulle possibilità di successo del piano del Governo. Condizionare le risorse economiche disponibili contro la povertà al buon esito della razionalizzazione del sistema di welfare italiano non sembra essere la scelta giusta. Come sostenuto più volte dal presidente delle Acli, Gianni Bottalico, portavoce dell’Alleanza contro la povertà in Italia, la costruzione di uno strumento unico contro questa piaga deve essere separato dalle riforme in atto. In sostanza, le risorse da destinare alla lotta contro la povertà (7 miliardi di euro circa) devono essere aggiuntive. Così come impostato dal Governo il percorso difficilmente porterà alla costruzione di una misura universale, che sarà destinata a rimanere categoriale e circoscritta.
Del resto, le premesse non inducono certo all’ottimismo. Il 2016 doveva essere l’anno in cui veniva esteso il Sia a tutto il territorio nazionale, ma ad oggi questo allargamento ancora non è avvenuto. Secondo il ministro Poletti il nuovo Sia è pronto, nei prossimi giorni sarà firmato dal ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan. Al di là della firma, va evidenziato il fatto negativo che in ogni caso i finanziamenti previsti per il 2016 non saranno sufficienti neanche a coprire le spese per le famiglie in povertà assoluta con minori, obiettivo privilegiato della misura.
A conti fatti, la strada da percorrere per la lotta alla povertà è ancora molta e in salita. Ma bisogna fare in fretta! La virulenza del fenomeno in questione, infatti, non accenna a placarsi, anzi assume i tratti di un problema odioso: dai dati Istat si evince che esso colpisce sia le famiglie, in proporzione diretta alla loro ampiezza (quindi anche i minori), sia i lavoratori.
Nel 2014, le famiglie assolutamente povere erano 4,9 ogni 100 nuclei unipersonali, tale dato saliva al 16,7% delle famiglie con 5 e più componenti. In totale, le famiglie affette dal problema della povertà assoluta erano il 5,7% nel 2014, un dato inferiore rispetto al 2013, che invece era pari al 6,3%. Pur positivo, questo miglioramento non è stato però sufficiente a compensare gli incrementi degli ultimi anni: nel 2012 le famiglie assolutamente povere erano 5,6 ogni 100, oggi le stesse raggiungono la percentuale del 5,7%, quindi +0,1%. Dall’inizio della crisi economica (2008) le famiglie in povertà assoluta sono aumentate quasi di 2 punti percentuali.
Anche il lavoro non costituisce più una scialuppa di salvataggio sicura. In particolare, questo è vero per le famiglie povere di operai, che dal 13,7% del 2005 hanno visto peggiorare la loro situazione. Nel 2013, a cinque anni dall’inizio della crisi economica, le famiglie operaie in condizione di povertà assoluta sono diventate circa il 18%, a differenza di quelle dei dirigenti, che si mantengono al 5,2%, esattamente come nel 2005, a testimonianza della crescente disuguaglianza economica e sociale nel nostro paese.
Va salutata positivamente, quindi, la volontà del ministro Poletti di proteggere il lavoro, espressa il 13 aprile all’incontro con l’Alleanza contro la povertà in Italia, ma con esso occorrerebbe proteggere anche i livelli reddituali dei lavoratori e i loro diritti, se veramente si vuole debellare la povertà in Italia. Purtroppo il nostro Paese somiglia sempre più alla società diseguale raccontata da Dickens.