A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla vita cristiana
La basilica di Santa Maria Maggiore a Bergamo gremita come mai si era vista prima di allora. Ogni angolo invaso di persone e tra queste centinaia di ragazzi che hanno ascoltato in un profondissimo silenzio il racconto di Liliana Segre, una delle ultime persone sopravvissute ad Auschwitz ancora in vita. Una serata memorabile che i presenti ricorderanno a lungo. “A parlarvi stasera prima ancora che l’ex deportata di Auschwitz, la Senatrice a Vita, la cittadina onoraria della vostra città, è la nonna. La nonna che sono, la nonna “viziatrice”.
Ho taciuto per 45 anni. Poi ho deciso di parlare
Una narrazione rivolta in modo particolare ai giovani, “miei nipoti ideali”, sospesa tra le vicende di ieri, ricordate con una lucidità e un rigore impressionante, e lo sguardo continuo sull’oggi.
Ho taciuto per 45 anni. Dai miei 15, compiuti pochi giorni dopo il mio ritorno dai campi, fino a quando, a 60 anni, sono diventata nonna. Allora qualcosa mi ha spinto a parlare. Senza odio. Cercando di parlare non troppo di morte, ma il più possibile di vita. Mi ha spinto il fatto che avevo vinto su Hitler, ero diventata mamma, e persino nonna: aveva vinto la vita. Così ho deciso di non restare più chiusa in casa, ma di testimoniare ciò che avevo vissuto perché restasse memoria. Ho capito che mi era uscita la voce.
Una donna che non è capace di odiare ma che non dimentica. “Io sono la bambina a cui la scuola, ottant’anni fa, ha chiuso la porta in faccia solo perché ero ebrea”. Liliana ha otto anni, non capisce per quale ragione non può più andare alla scuola pubblica. Non comprende perché dopo le Leggi Razziali viene segnata a dito dalle amiche di una volta, diviene trasparente quando passa per strada, dimenticata negli inviti alle feste. Ha tredici anni quando finisce in carcere a San Vittore, colpevole di aver tentato la fuga con il papà in Svizzera. La cella se la ricorda bene: 202, nel quinto raggio. E sarà da lì che il 30 gennaio del 1944 verranno fatti uscire e caricati su vagoni piombati alla Stazione Centrale di Milano a furia di calci, pugni e bastonate. Sei giorni, e molti morti dopo, ammassati come animali in quegli spazi dove mancano aria, cibo e acqua, le porte si aprono. Ad Auschwitz. In un attimo uomini, donne e bambini furono separati. Lasciai la mano di mio padre, il papà amatissimo. “Non sapevo che non l’avrei più rivisto”.
La vita ad Auschwitz
E poi il racconto della vita nel campo.
Fummo denudate, ci portarono via tutto, della nostra vita precedente non ci rimase nulla; lì venivamo rasate dappertutto sempre davanti ai soldati sghignazzanti e poi ci tatuarono un numero: il mio è 75190 e io lo porto con grandissimo onore perché è una vergogna per chi lo ha fatto. Rivestite di stracci con un fazzoletto in testa, con gli zoccoli ai piedi, ci guardavamo l’una con l’altra: non eravamo già più quelle scese dal treno due ore prima, eravamo già delle cose diverse, eravamo già quelle nullità che loro volevano noi fossimo. Il dramma della prima baracca non fu nulla rispetto alla seconda dove delle ragazze francesi che erano lì da 15 giorni ci spiegarono dove eravamo arrivate: ci spiegarono cos’era quell’odore di bruciato che permeava sul campo: è l’odore della carne bruciata, perché qui gasano e poi bruciano nei forni.
Una memoria dolorosa. Come quello della sua amica Jenine, operaia-schiava come lei. In ricordo che brucia ancora per il senso di colpa di non aver saputo rivolgerle un cenno, uno sguardo di commiato , mentre si incamminava verso la camera a gas. “Ci avevano tolto la dignità, la pietà”. Il ricordo delle sue tre selezioni, lì tutte nude, in fila indiana, ad attraversare la sala e uscire attraverso un’uscita obbligatoria, dove un piccolo tribunale di tre persone le guardava, come le mucche al mercato, davanti, dietro, in bocca, se avevano ancora i denti, se erano abili al lavoro e poi un piccolo gesto gelido che voleva dire “vai”.
Io mi ricordo come attraversavo quella sala: il cuore mi batteva come un pazzo e io mi dicevo: «non voglio morire, non voglio morire…» e rimanevo lì, non avevo il coraggio di guardarli in faccia, mi atteggiavo ad indifferenza.
Non uccide il suo aguzzino. E si sente libera
Fino all’epilogo finale. Non ad Auschwitz ma a Malchow, un campo di concentramento del nord della Germania dove arriva dopo una lunghissima marcia della morte di 700 chilometri. Lì l’ultimo giorno avrebbe potuto vendicarsi. Ma non lo fece. “Le SS si spogliavano sotto i nostri occhi e s’infilavano gli abiti borghesi; scacciavano i loro cani lupo, che erano stati i simboli del potere, gli strumenti del terrore, weg, weg, via, via, cercavano di allontanarli, ma le bestie, disorientate, si scostavano di poco e poi tornavano scodinzolanti accanto ai padroni. Il comandante di Malchow gettò la divisa nel fosso e restò in mutande davanti a me. La pistola era a terra. Non se ne preoccupò. Per lui rimanevo uno Stück, un pezzo, forse nemmeno s’accorse della mia presenza. Fu un attimo. Pensai: ora la raccolgo e gli sparo. Ma non ne ebbi il coraggio. L’amore che mio padre mi aveva dato m’impedì di diventare uguale a quell’assassino. Quando scegli la vita, è per sempre, non puoi più toglierla a nessuno. Da quel momento mi sono sentita libera”.
Salvata dall’amore
Prima dell’incontro in Santa Maria Maggiore, Liliana Segre ha voluto incontrare le Clarisse di Boccaleone. Alla domanda su come abbia potuto riprendere la vita dopo la terribile esperienza del campo di sterminio, non ha avuto dubbi.
L’amore. Sono stata così tanto amata, dai nonni, da mio papà, un santo perdente. Un amore che mi serve anche adesso, come una pelle fantastica che ripara tutti i mali del mondo. E ho ritrovato l’amore con mio marito, purtroppo morto dieci anni fa. Al ritorno dal lager ero un animale ferito, diversa dalle mie coetanee, una ragazza goffa che non riusciva a integrarsi con gli altri e avvertiva in tutti un nemico. Ma nonostante tanto orrore e solitudine, con Alfredo e per Alfredo sono riuscita di nuovo a dare e ricevere amore.