A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana
“Non mi sento, comodamente e presuntuosamente, dalla parte giusta. La parte giusta non è un luogo dove stare; è, piuttosto, un orizzonte da raggiungere. Insieme. Ma nella chiarezza e nel rispetto delle persone. Non mostrando i muscoli e accanendosi contro la fragilità degli altri”. A scrivere così è don Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele di Torino e da anni presidente di Libera, associazione, nomi e numeri contro le mafie, in una lettera di poche pagine rivolta “ad un razzista del terzo millennio” (Edizioni Gruppo Abele).
L’incipit è chiaro e preciso: “Ho deciso di scrivere. Proprio a te, coinvolto nell’ubriacatura razzista che attraversa il Paese. Una ubriacatura a cui partecipi forse per convinzione o forse solo per l’influenza di un contesto in cui prevalgono le parole di troppi cattivi maestri e predicatori d’odio, che tentano di coprire così l’incapacità di chi ci governa (e ci ha governati) di assicurare a tutti, compresi i più poveri, condizioni di vita accettabili”.
La spinta a scrivere e a pubblicare il testo (non a caso, terminato il 27 gennaio, giorno della memoria) è la situazione nella quale ci troviamo. “Non sono abituato a farlo. Preferisco i fatti con i loro linguaggio, silenzioso ma vero. Eppure di fronte all’ingiustizia che monta intorno a noi non si può più stare zitti”.
Contro luoghi comuni e falsi miti e contro la fabbrica della paura
Allora, con numeri alla mano, offre al “razzista del terzo millennio” – quello che molti di noi hanno vicino sul pullman, sul lavoro, nel banco della chiesa – tutti i dati necessari per smontare i luoghi comuni e i falsi miti circolanti attorno all’immigrazione.
Lo abbiamo scritto più volte: la questione non va sottovalutata ma governata in modo intelligente ed è necessario parlarne senza rimozioni. Ma, insieme, occorre riconoscere che la risposta ad un tema complesso non può essere quella di parlare alla pancia della gente e che tra il percepito e il reale c’è di mezzo la retorica della paura. Che, in alcuni casi ben specifici, diventa, apertamente, la “fabbrica della paura”. In servizio permanente effettivo e che ha costruito una narrativa che alimenta la xenofobia di una parte, crescente, di italiani: gli stranieri sbarcano in numero sempre maggiore sulle nostre coste togliendo lavoro e risorse per il welfare agli italiani. Ci invadono, ci rubano il lavoro, ci rendono più poveri.
Niente di più falso. Don Gigi prende in considerazione temi e slogans a costo zero (“Prima gli italiani” e “aiutiamoli a casa loro”) mostrando semmai che ad avere il fiato corto è la politica oggi spesso ridotta, in mancanza di visioni e sguardi di medio-lungo periodo, a luoghi comuni e facile propaganda. Una politica da ripensare certo a partire dal rispetto della dignità umana e della giustizia ma anche della cultura perché un tempo complesso, soggetto a continue e rapide mutazioni richiede parole e pensieri che lo sappiano interpretare, che sappiano orientarci nel suo groviglio. Se manca la cultura prevalgono le approssimazioni, le bufale, la propaganda.
Del silenzio mi sarà chiesto conto
Un testo da leggere e da far circolare. Nelle scuole, negli oratori, nelle chiese. Per noi cristiani, per non dimenticare quanto usava dire don Tonino Bello. “Delle parole dette mi chiederà conto la storia, ma del silenzio con cui ho mancato di difendere i deboli dovrò rendere conto a Dio”. Per tutti, per ricordarci di “restare umani”. Senza orpelli buonisti o mielosi. Ma con quella concretezza ben espressa dalla citazione di Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala, messa dentro il testo:
“Il futuro è sempre incerto, amici miei. Preoccuparsi dei diritti degli altri non è buonismo, ma significa anche (oltre a essere segno di umanità) preoccuparsi dei propri. Perché non si sa a chi toccherà la prossima volta il fato avverso. Almeno affrontiamolo tutti quanti con dei diritti in tasca. Datemi retta, lo so per esperienza, è meglio”.