Il rapporto della fondazione Hume sulla cosiddetta “terza società” è stato ampiamente commentato da importanti studiosi. Ora si tratta di abbozzare qualche risposta, per offrire delle opportunità a chi appartiene a questo “terzo”, tenendo conto che in questi mesi (se il governo dura) si deciderà in merito a un paio di strumenti utili allo scopo.
Anzitutto facciamo un breve riepilogo. Com’è noto la fondazione Hume legge l’attuale condizione sociale nazionale attraverso il mercato del lavoro, perché è in questo spazio che si generano le vere differenze sociali. Sono tre, in particolare, le partizioni che si evincono.
Nella prima vi sono i garantiti, grazie alla stabilità del posto fisso, nella PA o nelle grandi imprese: si tratta di un gruppo di poco più di una decina di milioni di lavoratori. Nella seconda troviamo i lavoratori a rischio, a causa dell’autonomia del lavoro, della temporaneità e della atipicità dei contratti o della microdimensione d’impresa, che tutela in modo piuttosto limitato: si tratta di un gruppo di quasi undici milioni di individui. E infine, ecco la terza società, quella degli esclusi, dove troviamo gli inattivi, disponibili o indisponibili, occupati in nero o irregolarmente, oltre ai disoccupati veri e propri. Questa condizione accomuna poco più di nove milioni di persone. Troppe.
Al momento il dibattito politico non evidenzia significativi rimedi per eliminare queste faglie. Si potrebbero, però, ridurre alcune distanze procedendo lungo due direzioni. La prima va verso un’indispensabile misura di accompagnamento sociale. L’infrastruttura che porterebbe con sé il Reddito di inclusione sarebbe un mezzo idoneo.
Se il Parlamento approverà questa misura, allora si potrebbe contare su un vero e proprio strumento per la stesura e realizzazione di progetti di integrazione – per esempio sociale, formativa, lavorativa, sanitaria – da “piegare” individualmente e localmente alle diverse situazioni. La parola “reddito” di inclusione potrebbe ingannare, perché non si tratta solo di dotare le persone di un contributo economico, quanto di legittimare una via che collochi le persone e le famiglie in un circuito che offre alcune opportunità.
La seconda direzione va verso un ripensamento degli strumenti della flessibilità lavorativa. In questo senso il dibattito sui voucher dovrebbe consentire di riportare questo strumento nell’alveo della legittimità, delle ragioni per cui è nato, ovvero normare il lavoro quando è occasionale o accessorio, cercando di far uscire allo scoperto il lavoro nero.
Se così sarà, allora rimarrà aperta la strada per rimodulare gli strumenti della flessibilità lavorativa, magari secondo il principio per cui la flessibilità costa di più dell’ordinarietà.
Il modo con cui – in questi mesi – si proverà a definire o a ridefinire le forme di un reddito di inclusione, del lavoro occasionale, accessorio e flessibile avrà dunque un qualche significativo impatto sulla terza società, nel tentativo di metterla in una condizione quantomeno dignitosa in tempi brevi se non brevissimi, e in attesa di un piano per eroderla, per svuotarla il più possibile.
È ovvio che per rispondere coerentemente occorrerà provare a redigere un vero e proprio piano industriale del lavoro, ovvero una serie ordinata di azioni – quantomeno un coordinamento di alcune misure – per creare le condizioni affinché si generi lavoro in Italia.
Tenendo conto che il lavoro non si crea per legge, ma sapendo però che una buona legge può contribuire a generarlo.