di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla vita cristiana
Ge Hinnom, questo è il nome ebraico, traslitterato in greco con Gehenna, della valle di Hinnom che gli ebrei e i cristiani usarono per definire il luogo della punizione eterna. Perché una bella valle illuminata dal sole ha dato il nome all’inferno? Perché essa rappresenta il punto più basso della città di Gerusalemme, l’antitesi del monte del Tempio. Se quest’ultimo evocava il monte del Signore, il primo simboleggiava lo sheol, gli inferi, il regno della morte, la tomba universale nella quale immettono tutte le tombe individuali. La fine della valle, dove anticamente venivano bruciati vivi i bambini in sacrificio al dio Moloc, era anche l’inizio del deserto, che per la tradizione ebraica costituiva sia la continuazione del caos originario sia la dimora dei demoni, in particolare, secondo Levitico 16,10, di Azazel. Al tempo di Gesù, la valle inoltre era la discarica delle immondizia della città e i rifiuti venivano bruciati notte e giorno dal “fuoco inestinguibile”. Alla Geenna e a quanto ha simbolicamente rappresentato per molto tempo nell’immaginario cristiano ho pensato quando ho cominciato la lettura di un testo prezioso. “Inferni. Parole e immagini di un’umanità al confine” (EDB, 2020), scritto da Giovanna Brambilla, acuta storica dell’arte e responsabile dei Servizi Educativi alla nostra GAMEC. Un libro di un centinaio di pagine, didattico e profondo allo stesso tempo, che traccia e interpreta secoli di immagini artistiche sull’aldilà dei dannati: da Giotto a Van Eyck, da Botticelli a Michelangelo, da Goya a Munch, con una particolare attenzione all’arte, poliforme, contemporanea. Sempre cercando di mostrare tra le pieghe dei molti inferni dagli orizzonti bassi e senza apparenti fessure in cui la modernità si è infilata ed è sedotta “una possibile via d’uscita in una giustizia umana e divina, capace di dare riscatto, generare perdono, e non perdere Dio”.
Quali sono le ragioni che ti hanno portato a scegliere un tema come questo?
Il tema dell’inferno è un tema che accende l’immaginazione, ma che nello stesso tempo si incontra quotidianamente nella realtà, se solo si è vigili e non si chiudono gli occhi, quindi ammetto che una sorta di inclinazione personale mi ha fatto sentire particolarmente in consonanza con questo argomento, e i suoi risvolti etici. Il punto di origine, così si chiama l’esca che fa partire il fuoco, vien però dal fatto che un paio di anni fa, in occasione di un triduo dei morti, mi venne chiesta una meditazione proprio su questo tema, scelto tra i Novissimi, con l’intento di declinare l’inferno prestando particolare attenzione a come l’arte contemporanea ha affrontato questo argomento, in modo esplicito o metaforico.
Il tuo libro presenta una lunga carrellata di immagini. Eppure, dopo i riferimenti evangelici di Matteo e Luca, parti dalle parole, dalle parole di Dante, l’inizio del Canto Terzo della Commedia. Perché?
La partenza dai Vangeli era d’obbligo, soprattutto per capire quanto l’idea di un alto e di un basso, o di un’impostazione orizzontale, a destra e a sinistra di Cristo, non potesse prescindere da quella fonte. Se, però, pensiamo al nostro archetipo figurativo, alle parole che si sono fatte immagini, la fonte del nostro pensiero sull’inferno, un inferno certo medievale, ma quanto mai vivo e coinvolgente, viene da Dante. Lo si studia a scuola, passiamo tutte e tutti, attraverso i suoi cancelli, ed è facile che si pensi a lui, prima che a Matteo e Luca, come principale descrittore; sono le terzine dantesche a dare la trama sui cui i pittori, dal XIV secolo in poi, hanno intessuto l’ordito dei loro dipinti, da Botticelli a Michelangelo, ibridando con quell’estrema libertà che caratterizza l’arte, la figura di Cristo e del Giudizio con Caronte e Minosse. Ovviamente l’intento non era di sminuire la fonte evangelica, ma quello di renderla più tremenda, di fare del Dies Irae qualcosa che impressionasse lo sguardo, turbasse i cuori, rinfrancasse nella fede e allontanasse dai peccati. Fu questa, infatti, la ragione per cui spesso era dipinto in controfacciata, nelle chiese, ovvero su quella parete a cui andava l’ultimo sguardo, prima di rientrare nel mondo secolare e tornare alla vita quotidiana.
Il testo mostra come nel corso del tempo sia cambiata la comprensione dell’inferno: un percorso attraverso alcuni autori. Ce lo puoi riassumere? Come gli artisti hanno dato voce a questo tema?
Riassumerla non è semplice, rischierei di banalizzare una “staffetta” di temi, immagini e contenuti, però potrei dire che quello che, a mio parere, avviene guardando le opere che si snodano dal medioevo sino a noi, è che l’idea di inferno si è lentamente spostata da un concetto trascendente, una sorte che si sarebbe incontrata dopo la morte, a una condizione tristemente immanente. In un mondo dove nessuno metteva in discussione le gerarchie sociali, che si rispecchiavano in quelle angeliche, un mondo dove non c’era mobilità sociale od economica, l’idea di giustizia, e di Giudizio finale, era collocata in un’eternità fuori dalla storia. Però, con Dante, e poi con Michelangelo – così ferito nel profondo dalla crisi della Chiesa ai tempi della Riforma e del Sacco di Roma – le questioni storiche entrano nella rappresentazione; gli artisti iniziano a registrare gli inferni che toccano con mano, come fece Goya con le fucilazioni dell’esercito francese a Madrid, o Musič con i cadaveri dei deportati a Dachau. Si inserisce poi, con grande forza, anche l’inferno “dentro”, la propria inadeguatezza, il proprio tormento, la fatica di entrare in sintonia con una società conformista, come avviene nei dipinti di Munch. Infine, nella contemporaneità più vicina a noi, nel terzo millennio, l’inferno diventa la regola, la condizione paventata o quella vissuta sulla propria pelle; in un mondo in cui, come afferma Bauman, si fa il gioco delle sedie e qualcuno resta sempre privo, in cui si è eroso lo spirito di solidarietà e nel lavoro si spingono le persone a scavalcarsi e a non unirsi, inferno è diventare vuoto a perdere, è non trovare senso nell’esistenza. Anche se, poi, ho voluto chiudere il libro con una possibilità di riscatto.
La copertina è bellissima. Perchè tra i molti autori hai scelto Goya?
Goya è la cerniera, la sua incisione mostra l’inferno che prende forma, il passaggio nel corso dei secoli dalla trascendenza alla presenza. Il sonno della ragione genera mostri, infatti, viene tradotto da Todorov come Il sogno della ragione genera mostri, è uno spostamento molto sottile, ma ci dice che quando la ragione sogna, sogna mostri, che i mostri non compaiono quando non è più vigile, e si fanno strada, ma sono nelle sue corde, sono l’altro lato della medaglia, il desiderio latente. Essere nel perimetro dell’umanità sta nell’avere consapevolezza della continua possibilità di caduta e deriva, e tenere alta la guardia.
L’ultima parte del tuo libro presenta diversi autori contemporanei. L’uomo di oggi – che l’arte in modi diversi riprende e rilancia – che comprensione ha dell’inferno?
Ci sono alcuni artisti che fanno della propria arte un osservatorio lucido sulla contemporaneità – e in questo chiedo che la Chiesa dovrebbe immergersi nell’esplorazione di queste terre, perché vi troverebbe una cartina di tornasole delle difficoltà di donne e uomini alla prova di una società postmoderna o dell’ipermodernità. Le grandi narrazioni, così si dice, si sono sgretolate, e spesso anche la tenuta dei legami sociali è venuta meno. Penso al “Ministero della solitudine” creato nel Regno Unito, all’isolamento tra persone che si riscontra in Svezia (guardare La teoria svedese dell’amore di Erik Gandini aiuterebbe molto). Ma questo tema è ancora più scottante oggi, a un anno dall’inizio della pandemia, che ha colpito pesantemente le famiglie, creato nuove e invisibili povertà, abbattendosi molto sulle donne – uno dei casi che ha avuto molto risalto è stato l’aumento dei suicidi in Giappone, dove i suicidi che riguardano donne sono aumentati di più dell’80%, quelli maschili circa del 20%. Chi compie gesti estremi come questi ha visto l’inferno sulla terra, e non ha trovato nulla a cui aggrapparsi. Chi nasce povero, o in una famiglia con reddito basso e povertà culturale, riceverà meno stimoli, avrà meno opportunità, facendoci piombare a quell’immobilità sociale che era tipica del medioevo. Quindi artiste e artisti si fanno cantori di questa sofferenza e mostrano che se l’inferno è salito sulla terra è sula stessa terra che si chiede giustizia.
Gli inferni contemporanei – sostieni nel libro – nonostante un non senso opprimente e disumano – a volte lasciano aperto uno spiraglio. Quale?
Credo che la risposta la dia Italo Calvino, quando, in chiusura de Le Città invisibili, scrive: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Noi dobbiamo cercare quello che dà senso, tenerlo stretto e dagli spazio; in fondo, guardare in faccia l’angoscia e il dolore aiuta anche a dare senso a quelle piccole felicità che incontriamo, e dobbiamo imparare a riconoscere, e che spesso derivano dal nostro sapere guardare l’altro, e farne il banco di prova della nostra umanità.
Chiudi il libro con una bellissima fotografia di Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani, scattata da Letizia Battaglia. Qual è il senso di questa scelta?
L’inferno non è un luogo che, nella visione biblica, sta isolato e racchiude il senso della vita; non si dà inferno senza che ci sia il suo opposto. L’inferno è anche non uscire dalla logica del male, del rancore e della vendetta e in questo Rosaria Costa, che ha perso il marito, agente di scorta di Giovanni Falcone, in una voragine tremenda che il tritolo ha aperto nell’asfalto, poteva prendere un’altra strada, invece ha associato il suo perdono al desiderio di giustizia, ha chiesto a gran voce che gli assassini mafiosi si pentissero, che la scia di sangue si chiudesse. Nella lama che separa la luce dall’ombra, resa da una straordinaria Letizia Battaglia, sta il crinale. Rosari Costa ha seguito l’invito di Calvino. Volevo, come ho detto prima, chiudere il libro facendo entrare un po’ di luce, suggerendo una strada.
L’arte ci consegna una “grammatica universale” attorno al tema del giudizio pertinente sia per chi crede che per chi non crede?
Credo che sia difficile immaginare un linguaggio – musicale, artistico, letterario – come universale, perché culture come quella indiana, ad esempio, o cinese, o maori, non condividono la storia, la letteratura e la cultura che fa da sostrato alla nostra percezione. Dante non è ovunque. Se però ci riferiamo al mondo occidentale credo che l’arte abbia la straordinaria capacità di essere agorà di scambio, di incoraggiare uno sguardo critico sulle cose. Si è spesso detto che molti artisti sono profetici rispetto al futuro – penso a Beuys che nel 1974 ha realizzato un’opera con le Twin Towers, chiamandole con i nomi di Cosma e Damiano, santi arabi guaritori, patroni della Firenze che all’epoca era dal punto di vista economico, la nostra New York -, quando questo avviene nasce un’opera, una performance, un video, che incarna valori e concetti universali. Il video Turn on di Adrian Paci, ad esempio, che parla della resilienza e della capacità di fare luce pur nel dramma della disoccupazione, o alle opere di Weiwei, che hanno usato i giubbotti di salvataggio per rivestire luoghi iconici, denunciando la tragedia dei migranti, o ai film di Ken Loach, tremendi nel loro non mostrare vie d’uscita. Opere che cercano di parlare al cuore di tutti, e toccano temi come la giustizia, la pazienza, la responsabilità. L’insegnamento “ama il prossimo tuo come te stesso”, metro di misura di un possibile giudizio, è fatto proprio da molte donne e molti uomini di buona volontà, credenti e non, cristiani e non, così come non è detto che artiste e artisti che hanno trattato temi forti siano credenti; magari non credono in Dio, ma credono nell’umanità, e questo crea un terreno di riflessione condiviso.
Oggi nella predicazione cristiana attorno al tema dell’inferno si è passati dalle molte parole all’assordante silenzio. Una parabola avvenuta nella stessa teologia. Dal tuo osservatorio, quale punto di intreccio è possibile tra la coscienza dell’uomo di oggi e la coscienza credente?
Dal mio un punto di vista – marginale e frammentario – ho l’impressione è che questo silenzio possa venire da parole spese su altri campi. Passare dalla colpa alla misericordia, dalle fiamme all’ospedale da campo, come è accaduto in questi ultimi anni, forse significa riconoscere che esiste una pericolosa ambiguità che a volte ha associato insuccesso ed emarginazione sociale al tema della colpa, e che una ecclesia, una chiesa che riconosce nell’essere comunità uno dei suoi punti di forza, sente il bisogno, ora, di prendersi cura delle persone. Di non allontanarle con l’insistenza sull’inferno, ma di non lasciarle alla solitudine e, in questo il nuovo “non abbandonarci nella tentazione” è un segnale. Altrettanto, però, se non si sente più l’inferno, si sente parlare di giudizio, di un giudizio che ci riguarda, che non ci consente di adagiarci nella nostra comfort zone, di una giustizia necessaria sulla terra, prima che in cielo, di una chiamata in causa, come cristiane e come cristiani, a quell’ingaggio nella storia a cui non si dovrebbe mai abdicare.