A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana
Il 21 marzo scorso, primo giorno di primavera e festa di San Benedetto, è morta madre Anna Maria Cànopi, badessa emerita del monastero di clausura dell’isola di San Giulio, sul lago d’Orta, comunità che lei aveva fondato nel 1973 e diretto sino allo scorso autunno. Aveva 87 anni ed è stata una figura di rilievo nella Chiesa italiana.
È autrice di numerosi libri di spiritualità, ha dato vita ad una delle realtà monastiche più generative. Non solo a San Giulio, dove vivono un’ottantina di monache ma anche a Saint-Oyen, in Val d’Aosta. Benedettine di San Giulio sono a Fossano mentre altre sono state chiamate a rivitalizzare monasteri a Ferrara e a Piacenza. Una donna di Vangelo esile e risoluta, minuta e coraggiosa che ho incontrato e intervistato alcuni anni fa. Questo è il resoconto della giornata.
Guardare la chiesa e il mondo da un monastero posto su piccola isola, incastonata in mezzo al lago d’Orta. Questo mi ripromettevo mentre andavo ad incontrare Anna Maria Canopi, badessa dell’abbazia benedettina “Mater Ecclesiae”.
Assumere un punto di vista marginale, lontano dai clamori e anche da una certa confusione mondana che pare attanagliare molti credenti oggi. Portavo con me una frase – preziosa – del cardinal Martini che diceva: “Per accogliere la Parola, occorre coltivare il silenzio contemplativo, la capacità di rientrare nel nostro intimo, di ritrovare il centro di noi stessi, vincendo l’ansietà e la fretta che divorano e fermandoci ad ascoltare le domande vere per ricevere su di esse la luce di Dio che parla.” Di primo mattino, nessuno passeggia negli strettissimi viottoli dell’unica strada – non a caso chiamata “Via del Silenzio” – che porta al monastero, oggi insediato nel luogo dove, in un tempo, non molto lontano, si trovava il seminario diocesano di Novara. Un segno, per una chiesa troppo rumorosa.
Che cosa spinge molte persone oggi a bussare alle porte dei monasteri?
Fin dal tempo del padri del deserto, alle origini del cristianesimo, si è verificato il fatto che quanto più un uomo, spinto dallo Spirito, si ritirava nel deserto per dedicarsi a Dio solo nel silenzio e nella solitudine, tanto più, misteriosamente, attirava a sé altri cercatori di Dio che trovavano in lui una guida sicura per il cammino spirituale. È quanto avviene anche nel nostro tempo. La gente bussa alla porta dei monasteri per cercare quel ristoro che Gesù offre agli affaticati e agli oppressi nello spirito, essendo stressati dal rumore e dalle molte tensioni dell’ambiente in cui vivono. Per questo apprezzano molto un ambiente impregnato di silenzio e di preghiera. La semplicità della vita, la sobrietà del parlare, la disponibilità a servire – oltre all’ascolto della Parola e la preghiera – offrono agli ospiti il meglio dell’esperienza monastica e li aiutano a scendere nelle profondità del loro cuore per incontrarsi, nella cella interiore, con Dio. Certo, non tutte le persone che accostano i monasteri sono alla ricerca di Dio in senso cristiano. In ogni caso l’accoglienza data senza prevenzioni, l’attenzione premurosa, con piena empatia, vale più che ogni sforzo di incontrarsi sul piano delle idee.
Un grande monaco – Evagrio Pontico – diceva che: «Monaco è colui che è separato da tutti per essere unito a tutti». Voi vivete in un posto splendido, isolato dal mondo. Come condividete le storie del mondo, le ansie e le speranze degli uomini?
Cercatori di Dio nel silenzio e nella solitudine, i monaci fissano generalmente la loro dimora in luoghi di suggestiva bellezza anche se scomodi. L’incanto dell’ambiente naturale, infatti, è già “stato di grazia” che favorisce il cammino spirituale. Quando il vescovo di Novara – allora mons. Aldo Del Monte – ci chiamò ad impiantare sull’isola San Giulio la vita monastica benedettina, ai nostri occhi il luogo si manifestò subito idoneo al nostro genere di vita; tanto più che alla bellezza della natura si univa la percezione di una storia che sembrava trasudare dalle antiche pietre dei sacri edifici. In quel periodo fervido e cruciale del post-Concilio sentivamo di dover essere un’espressione di Chiesa autentica davanti agli occhi del mondo, così come il Concilio aveva proposto. Questo significava per noi diventare un luogo di presenza silenziosa del Signore tale da poter far sentire ai nostri fratelli il mistero di Dio che parla nel silenzio. E Dio volle fare della comunità «Mater Ecclesiæ» un luogo di ristoro per gli uomini irrequieti e stanchi di quest’epoca contrassegnata dai rapidi mutamenti e dalle angosciose incertezze.
Il monaco nella Chiesa rappresenta l’“inutile” per eccellenza. In un tempo in cui si mercifica e si calcola tutto, qual è il valore della vostra esperienza?
È vero che viviamo in un mondo dominato dagli interessi economici e dall’affannosa ricerca dei beni puramente materiali; ed è altrettanto vero che la nostra società è caratterizzata da una mentalità dello spreco sfrenato, che investe non solo gli oggetti, ma la stessa vita personale di cui si fa scempio in vario modo. L’attuale crisi economica e il dilagante degrado morale potrebbero costituire un efficace richiamo per riscoprire la bellezza della sobrietà, della condivisione, della vita di comunione. Allora non si riterrebbe più “sprecata”, bensì preziosa una vita che non risponda alla logica del successo mondano. Tra le varie vocazioni, quella monastica è certamente la meno compresa perché non si propone specifiche opere di carattere apostolico, assistenziale o educativo. Qual è dunque il suo senso? In che cosa consiste la sua bellezza? Il suo fascino segreto consiste semplicemente nell’essere una risposta radicale e assolutamente gratuita all’Amore gratuito di Dio. Essa è un segno trasparente delle realtà invisibili, un anticipo del Regno dei cieli. Non è quindi inutile, come non è inutile al navigante la stella polare. Con la sua vita totalmente donata a Dio, il monaco indica ai fratelli la direzione da seguire, ricorda loro che il senso ultimo della vita non è la terra, ma il cielo, non l’effimero, ma l’eterno. E questo è un servizio di grande utilità perché dettato dall’amore. Proprio nell’essere segno escatologico, la comunità monastica offre una visione serena della vita presente così spesso segnata dal dolore. Le tribolazioni non mancano neanche ai contemplativi, ma sono vissute come partecipazione al mistero pasquale di Cristo, come croce da cui già si sprigiona la gioia della risurrezione e della gloria.
In che modo la fede in Dio non è una fuga dalla storia? Perché l’Eucaristia è sempre una responsabilità verso la terra?
La religione cristiana non può nel modo più assoluto essere fuga dalla storia, dal momento che Dio stesso, incarnandosi nella persona del Figlio, è entrato nella storia per compiere l’opera dell’umana redenzione. È un Dio che si è compromesso con l’umanità, unendo indissolubilmente l’amore per lui all’amore per il prossimo: «Quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40). Nell’identificare se stesso con ciascuno di noi, Gesù manifesta la sconvolgente condiscendenza dell’amore divino. Se lo accogliamo, diventiamo gli uni verso gli altri il sacramento della sua Presenza, del suo amore oblativo. Colui che si è fatto uomo per noi, si è consegnato a noi anche come Pane di vita che ci rende capaci di amare con il suo stesso amore tutte le creature, poiché la salvezza ha una dimensione cosmica: nel pane e nel vino consacrati è rappresentata tutta la realtà terrestre. La creazione tutta, infatti, è in attesa di essere «liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8, 21).
Custodire il silenzio pare essere una prerogativa dei monaci. Eppure è sempre più un’esigenza degli uomini. Come imparare a custodire il silenzio?
Elemento fondamentale per una profonda vita interiore, il silenzio è innanzitutto un dono di grazia che ha la sua sorgente in Dio e che dispone all’intima comunione con lui. Esperienza mistica ineffabile, esso si esprime in umiltà, stupore e adorazione. Silenzio, infatti, significa consapevolezza della propria piccolezza e commossa gratitudine nello scoprirsi amati da Dio. Un tale silenzio ovviamente richiede un’assidua educazione. San Benedetto afferma che per giungere a formarsi un animo silenzioso è bene non solo astenersi sempre dai discorsi vani o cattivi, ma anche talora rinunziare a parlare di cose buone e edificanti. Nei saggi il silenzio è più eloquente delle parole. Ovviamente il silenzio non è una prerogativa dei monaci, ma un’esigenza di tutti gli uomini, poiché tutto ciò che vale nasce dalla profondità dell’essere unito a Dio. Oggi più che mai il silenzio è insidiato dalla superficialità e dall’eccesso di parole, rumori e immagini, ma è violato anche dai nostri turbolenti sentimenti e vani pensieri; viene soprattutto sciupato dalla voce del nostro “io” che si erge orgoglioso in contrapposizione a Dio e causa rapporti conflittuali con gli altri. Per custodire il silenzio occorre, dunque, vigilare molto attentamente e coltivare l’umiltà. Ciò non è possibile se non pregando e meditando nel cuore la Parola di Dio, sull’esempio della Vergine Maria. Per lei l’amore al silenzio coincideva con l’amore alla volontà di Dio conosciuta ascoltando la sua Parola.
Oggi la ricerca spirituale spinge su molte vie. Qual è lo specifico della preghiera cristiana?
La preghiera cristiana è anzitutto dono di Dio all’uomo, ossia azione divina in noi (cf. Rm 8); ma proprio in quanto dono di amore suscita da parte nostra una risposta d’amore; diviene quindi anche azione umana. La preghiera cristiana è dialogo d’amore del Padre con i suoi figli e dei figli con il loro Padre. E questo avviene per mezzo di Gesù Cristo, sotto l’azione dello Spirito Santo. Proprio perché si tratta di un rapporto d’amore, la preghiera è sottoposta alla prova, costituisce non di rado una dura fatica e un combattimento spirituale. Vi sono ostacoli interni ed esterni che bisogna saper affrontare con umiltà e insieme con coraggio; ad esempio: il dubbio circa la sua utilità, lo scoraggiamento, l’incostanza, la ricerca di noi stessi… È perciò anzitutto necessario la purificazione del cuore, perché solo allora la nostra preghiera è culto in spirito e verità, dà gloria a Dio e ci santifica.
Il monaco, nella tradizione cristiana, è spesso associato alla sentinella. Come custodire l’attesa, discernere i tempi e, insieme, non essere risentiti e amareggiati nei confronti del mondo?
L’immagine della sentinella è certamente una delle più appropriate e suggestive per caratterizzare il monaco e la sua specifica vocazione di orante. È sentinella, perché, sollecito, veglia in preghiera nel cuore della notte, nell’intento di proteggere l’umanità immersa nel sonno ed esposta a tanti nascosti pericoli; sentinella, perché, ritirato dal mondo e posto in un luogo di vedetta, può meglio scorgere il “nemico” che tenta di riconquistare gli uomini; vedendolo, lo combatte innanzitutto in se stesso con una vita di preghiera incessante e di austera ascesi. È sentinella, perché, stando alla presenza di Dio, implora per tutti misericordia e salvezza; ed è sentinella soprattutto perché, con la radicalità della sua rinunzia, vuole affrettare il sorgere del vero Sole, il ritorno glorioso di Cristo e il compimento del suo Regno di amore e di pace. Per tutto questo nel cuore del monaco non c’è posto per “risentimento” o “amarezza” nei confronti del “mondo”: c’è invece una grande sofferenza, quando vede il male imperversare, quando constata un desolante, cieco allontanamento da Dio e dalla sua santa volontà. Ma questa è la sofferenza propria di un padre o di una madre che, impotenti, vedono i figli andare per vicoli ciechi, per strade di perdizione… È una sofferenza vissuta in comunione con il mite patire di Cristo, nella certezza di fede che egli è morto e risorto per tutti e che tutti può e vuole salvare, per vie misteriose e secondo modi e tempi a lui solo noti.
Qui a San Giulio siete in tante…
Pensi che da piccola dicevo spesso a mia mamma che desideravo almeno venti figli. Quando sono entrata in monastero, mi disse. “Ma tutti quei figli?”. Le risposi. “Beh, ne avrò altri…”