Vagavo per casa come per sfuggire a un destino già scritto, che non conoscevo, ma che temevo. Ormai ero in un vicolo cieco: uscire e rischiare di contrarre il terribile Covid-19 o morire di fame. Mi era rimasto solo un bicchiere d’acqua e un tozzo di pane raffermo. Non potevo più continuare a restare chiuso in casa.
Mi ero vestito come un palombaro. Di me vedevo solo gli occhi che filtravano attraverso un paio di grandi occhiali da sole, indossati anche se il cielo era plumbeo.
Ero rassegnato ad andare a fare la spesa, con tanto di guanti e mascherina, una cosa difficilissima.
Guardingo come un fuggiasco aprii la porta di casa e scesi le scale, assicurandomi di non incrociare nessuno nel raggio di dieci metri.
Da lontano un sinistro rumore di passi si faceva sempre più presente.
Uscii dal portone. Mi voltai e vidi la mia cassetta postale traboccante di corrispondenza. C’era anche una cartolina sbiadita, scritta a mano, con un grande cuore rosso palpitante, trafitto da una freccia e la scritta “Mi manchi”.
Era di mia moglie, me l’aveva inviata quindici anni prima durante un viaggio di lavoro a Londra.
A interrompere il film dei ricordi fu il suono di un messaggio sul cellulare, era di mia moglie. Lo lessi subito. “È finita, non ti amo più, non chiedermi di vivere con te per decreto”. Rimasi imbambolato.
Mi ricordai che oltre al virus c’era qualcos’altro capace di farmi del male, nonostante vivessimo in tempi che parevano non ammettere tormenti differenti dal Coronavirus.
Nei minuti successivi il mio corpo rimase impietrito, immobile come se volesse impedire al dolore di diffondersi dappertutto, rigido, come un corpo senza vita.
Lo sentii svuotarsi tutto d’un colpo e restai in piedi solo col mio inutile involucro.
Era notte fonda ed ero madido di sudore, il cuscino e le lenzuola umide. Il pigiama inzuppato.
Il mio incubo più ricorrente nel lockdown si era ripresentato. Non era raro svegliarmi di notte di soprassalto pensando che la brutta storia del Covid-19 fosse solo un maledetto sogno.
Una voglia di rimozione, di fuga dalla realtà, un incontrollato impulso negazionista mi aveva collocato idealmente tra quelle migliaia di statunitensi che all’indomani dell’attacco giapponese a Pearl Harbournon credettero subito alle sconvolgenti notizie che le radio diffusero in tutto il paese, ritenendole troppo incredibili per essere vere. Qualcuno tirò in ballo finanche Orson Welles ipotizzando una nuova, cinica riedizione dello scherzo radiofonico di qualche anno prima, con l’annuncio choc della invasione di truppe marziane. Purtroppo nessuna smentita seguì alla tragica notizia. Eppure qualcuno continuò a crederci, solo per riuscire a sopravvivere.
È tutto rallentato nel tempo sospeso, nel tempo apparentemente fermo, che ahimè scorre sempre, lento e inesorabile, imperterrito e indifferente all’uomo e ai suoi mali.
“Che giorno è oggi?”, mi sono chiesto ogni santa mattina. E ogni volta la risposta è stata sempre più lenta, perché del tempo ne avevo perduto il senso.
E avvertivo, sempre più presente, quella strana sensazione di dilatazione temporale che cercavo di compensare segnando con una crocetta sul giorno passato, una stanghetta sulle settimane e il rito liberatorio del voltare pagina ad ogni mese, in attesa che così come si fosse spezzato, il tempo, e con esso i rapporti affettivi, potessero ricucirsi, magari rabberciarsi alla meno peggio, per mano di Colui che il tempo non ha bisogno di misurarlo, perché gli appartiene l’eternità.
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