A cura di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana
Dopo il mio intervento di settimana scorsa mi hanno scritto in diversi. Riporto un intervento, tra i tanti, che mi ha mandato don Adriano Peracchi. Vale la pena leggerlo (dr).
Caro Daniele, vorrei reagire all’articolo che hai scritto perché pone questioni per me decisive. Parto da un interrogativo che mi pare una domanda di sostanza: vivere il Vangelo non consiste nel vedere Gesù Cristo nel povero? Il povero è la carne di Cristo. Lo dice ripetutamente Papa Francesco e lo dimostra con l’energia di scelte quotidiane; lo ha fatto a Lesbo quando per un bel momento rimase in piedi ad ascoltare un profugo che voleva esprimere tutto il dramma vissuto e subito. Lo dice quando si siede a mensa con i poveri e i profughi. Non lo dice con prudenza ma con la forza dello stupore e della verità riconosciuta.
Un primo ricordo: Papa Giovanni
Data la mia non giovane età mi viene spontaneo pensare al momento in cui apparve Roncalli alla loggia vaticana dopo la fumata bianca, con il nome di Papa Giovanni XXIII, nel 1958. Delusione prima e poi sorpresa con ammirazione. Delusione perché il mio immaginario era intriso di un’immagine-Chiesa identificata in un Papa nobile, teologo di prima qualità riassunto nella figura bianca, alta, quasi diafana di Pacelli; mi sembrava impossibile che un bergamasco come Roncalli potesse essere il continuatore della Chiesa di Cristo. Invece due gesti semplici ma sorprendenti: si reca in visita nel reparto oncologico dell’Ospedale Bambin Gesù e accarezza i bambini ricoverati e va nelle carceri di Rebibbia dicendo ai carcerati che “…ho messo i miei occhi nei vostri occhi” come a dire “ho incontrato la vostra umanità, è come la mia”.
La vera sorpresa con ammirazione fu quando, quasi in sordina, comunica che intende aprire un Concilio Ecumenico invitando tutti i Vescovi della Chiesa a incontrarsi; chi se lo aspettava tanto umile coraggio? Anche i Cardinali e buona parte della Curia romana rimasero spiazzati. Eppure questa ispirazione era nelle radici e nelle esperienze di Roncalli che proveniva da un lungo soggiorno in Oriente e poi a Parigi, in convivenza e relazione con persone e comunità che vivevano e interpretavano la fede in Cristo secondo tradizioni e culture diverse. L’idea del Concilio non era quindi un evento-spot, un promo pubblicitario, ma un profondo desiderio appassionato, condensato in una vita vissuta nelle relazioni più disparate, in obbedienza e pace.
Un secondo ricordo: i docenti del Seminario
Chi come il sottoscritto viveva quegli anni di Teologia in Seminario, ebbe la fortuna di incontrare insegnanti che già, allora, ci aiutavano a leggere e a interpretare il Vangelo non come un raccontino, ma a scoprire, anche nelle parabole, i tratti del regno di Dio come il sogno di un futuro più umano e più fraterno, come don Leone Algisi. Anche don Alberto Bellini, professore di dogmatica, che faceva parte della Commissione Ecumenismo con il Card. Bea. Ogni volta che rientrava a Bergamo, ci faceva gustare un modo più aperto di guardare il mondo: cadevano di giorno in giorno i pregiudizi sugli ebrei, i sospetti sul mondo protestante, ci apriva alla ricchezza di un cammino di fede in situazioni diverse da quello cattolico. Ci faceva conoscere i teologi proibiti come de Lubac, Schillebeecks, Hans Kung e tanti altri. Ci insegnava a leggere l’esperienza drammatica di Dietrich Bonhoeffer, con la consapevolezza di partecipare a costruire il Regno di Dio anche in carcere.
Nel frattempo scoprii che tra i Vescovi, al Concilio, si muoveva la domanda di una Chiesa povera. Ne era l’animatore Helder Camara, il Vescovo di Recife in Brasile, che si dava da fare per accrescere consapevolezza tra i Vescovi per una scelta di Chiesa povera tra i poveri.
Anche Papa Francesco viene da un altro mondo, come Camara. Dom Helder Camara raccolse la disponibilità di 500 vescovi pronti a sottoscrivere un documento sul tema “ Chiesa dei poveri, povera tra i poveri”; egli stesso era con la sua Diocesi la testimonianza vivente di questa Chiesa. Quando incontrai, nel 1984, in Nicaragua, Mons. Casaldaliga, mi testimoniò che Don Helder si spostava nella sua diocesi solo a piedi o con mezzi pubblici perché non aveva episcopio.
La Chiesa da cui viene Papa Francesco
La storia della Chiesa, in particolare in America Latina, è ricca di testimonianze di coscienza della Chiesa dei poveri, come in El Salvador con il Vescovo Oscar Romero che puntualmente, domenica dopo domenica, nell’Omelia faceva i nomi e i cognomi di coloro che venivano rintracciati, da Marianella Garcia collaboratrice della sua Diocesi, nelle discariche o in sepolture di fortuna.
Penso sia utile marcare queste testimonianze profetiche, sia religiose che laiche, perché sono i prodromi dello stile di Papa Francesco. Il Povero, carne di Cristo. Diceva Camara che bisogna “…vivere le due dimensioni della croce di Cristo: quella verticale verso Dio e quella orizzontale verso i fratelli, nella preghiera e nell’amore”.
Credere nella incarnazione. Testimoniare la passione e morte di Cristo incontrando il profugo, quello che fugge dalla guerra, dalla miseria, dalla morte. Il Povero, il profugo, carne di Cristo.
Uno stile di vita nella chiesa bel delineato nelle parole del documento conciliare Gaudium et spes:
Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.
Il vero problema oggi è che come Chiesa rischiamo di disattendere un segno dei tempi provvidenziale per riprendere a vivere da umani. E per rimanere umani.