“Le prospettive di Industry 4.0 e la dignità dell’uomo” è stato il titolo del seminario che si è svolto nei giorni scorsi presso la sede della rivista La Civiltà Cattolica. L’ incontro è stato arricchito dalla relazione di padre Francesco Occhetta.
Nel suo intervento, il gesuita ha proposto quattro assi tematici: il primo vede il lavoro come un esodo: viviamo un tempo di passaggio. Al suo interno si percepisce il senso della partenza, quello della paura e del sacrificio; perché questo “passaggio” sia traducibile in un percorso verso una possibile meta, una “terra promessa” si devono bilanciare un progetto di vita e un progetto politico.
Il secondo nucleo si interroga sul significato del lavoro: cosa vuol dire oggi? Per rispondere è fondamentale riscoprire l’eredità del principio costituzionale, nel quale il lavoro è segno di autonomia per il cittadino e azione per l’edificazione della Repubblica. Confrontarsi con la Costituzione significa anche verificare la forza e l’effettiva rappresentatività delle associazioni dei lavoratori, la distanza dell’idea di impresa dalle aziende reali, la possibilità per i lavoratori di esercitare i loro diritti.
Il terzo asse considera il contesto internazionale: vanno compresi gli effetti di una visione glocal, che coinvolge le economie di singoli territori nei flussi della globalizzazione, le conseguenze di un’indeterminatezza politica, che vede l’avanzare di tendenze populiste, e le tentazioni di veicolare, nel sistema della comunicazione, informazioni confuse contagiate dalla post-verità.
Il quarto asse richiede alle persone, ogni persona, di scoprire la vocazione al lavoro, perché se non “si da spazio alla voce del cuore”, la professionalità sarà soffocata dalla tecnica e i mestieri rinunceranno alla loro capacità generativa.
All’interno del quadro si colloca la riflessione sulle conseguenze del “lavoro 4.0”. In particolare padre Occhetta individua un focus nello slittamento del concetto di lavoratore che, nei documenti ufficiali, da employed – occupato – ora è tende a essere chiamato semplicemente worker (lavoratore). Dietro si nasconde la destrutturazione del rapporto di subordinazione. Ne deriva la visione di un “lavoratore nudo e crudo” senza rapporto con azienda o legame con altri colleghi.
Ci si chiede quali tutele si possano sviluppare in una tale situazione dove il lavoratore è sempre più solo e sempre più in competizione con gli altri. Tra i lati positivi si trovano la creazione di nuovi lavori, come i white work dedicati al servizio alle persone; l’utilizzo della tecnologia per sostituire i lavori più ripetitivi e faticosi e per gestire diverse attività in remoto; infine il lavoro connesso in rete che potrebbe facilitare la crescita dell’occupazione in territori de-industrializzati, qualora venissero sostenuti da infrastrutture adeguate. Tra i rischi si incontrano la scomparsa di molti lavori che saranno sostituiti dai robot; l’alienazione da iperconnessioni, la quale richiede un’educazione alla gestione del proprio tempo; l’assenza di tutele per le prestazioni: quali tempi, quale sicurezza, quali retribuzioni potranno essere garantiti?
In conclusione, Occhetta solleva una questione che interroga anche le organizzazioni della società civile, perché il lavoro 4.0 coniugato alla Riforma del Terzo settore porta a chiedersi come coltivare una vocazione sociale ed essere economicamente sostenibili. Entriamo in una nuova fase che non tocca solo l’industria, ma tutto il mondo della produzione e dei servizi. È importante osservare le dinamiche, ma anche mettersi in gioco: per umanizzare il lavoro. Di questo si parlerà nei due prossimi appuntamenti sul Lavoro 4.0: il 50 ° incontro nazionale di studi, previsto a settembre, e l’incontro internazionale di Eza.