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Il futuro della Chiesa starà nella capacità di intercettare le domande di senso

Un’intervista con Franco Garelli 

 

Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla vita cristiana

Chi è oggi il cattolico?   Come è cambiato nel corso di questi decenni? Può fornirci, facendo riferimento alle sue ricerche, un identikit che ne mostri le caratteristiche? 

A questa domanda non si può rispondere al singolare, essendo la varietà cattolica una costante di un Paese che ha alle spalle una lunga e preminente tradizione religiosa. Oggi, come ieri, ci troviamo di fronte a diverse “sensibilità” cattoliche, in quanto anche in un’Italia religiosamente più aperta e plurale (in cui crescono sia le posizioni atee e agnostiche sia i fedeli di altre confessioni religiose), il legame cattolico si mantiene comunque maggioritario; pur un po’ ridimensionato rispetto a 20-30 anni or sono. Nella mia ultima indagine colgo – tra le varie “anime” cattoliche – due profili prevalenti. Da un lato vi è una minoranza di credenti-cattolici ‘convinti e attivi’, quelli più vicini agli ambienti ecclesiali, che frequentano con maggior assiduità, che più interpretano la fede come un principio vitale e esprimono una particolare sensibilità sui temi della famiglia, della bioetica della solidarietà, dell’educazione; parte dei quali alimenta il tessuto delle varie parrocchie, comunità, reti di volontariato. Si tratta della cosiddetta “sub-cultura cattolica”, in cui rientra il 20% circa della popolazione, che non sembra subire particolari variazioni col passare degli anni. Dall’altro, vi è il folto insieme di italiani che si definiscono cattolici più per ragioni ‘culturali’ e ‘ambientali’ (per il fatto di essere nati e cresciuti in un contesto cristiano) che per specifiche convinzioni religiose e spirituali. È questo lo stile cattolico oggi più diffuso, quello che più è cresciuto negli ultimi decenni, proprio in un periodo in cui l’Italia ha conosciuto un più accentuato pluralismo religioso. Come a dire che in un Paese che diventa sempre più multiculturale e multi-religioso, una quota consistente di popolazione sembra spinta da questa alterità religiosa a riaffermare i valori della tradizione. Questo cattolicesimo cultural-anagrafico non si segnala per grandi slanci spirituali. Ma ciò non impedisce che chi lo esprime ritenga che la fede cristiana sia un valore di fondo della propria famiglia; o che sia utile dare ai figli un’educazione cristiana; o che sia importante servirsi della chiesa per solennizzare i riti di passaggio.  

Di fronte alle trasformazioni in atto che spaventano molti, il rischio è di trasformare la fede cattolica come baluardo identitario della tradizione. “Cattolicesimo culturale”, lei lo definisce. 

Il rischio c’è indubbiamente. Perché si tratta di un profilo cattolico che sembra ancorarsi ai valori e alla fede della tradizione più per motivi esterni che interiori,  più per la paura del nuovo che avanza che per specifiche convinzioni. Un cattolicesimo, dunque, che oggi accentua la sua matrice identitaria (etnico-culturale), connessa al fatto che “le identità religiose altrui sollecitano le proprie”. Quello inoltre che guarda con maggior favore ai simboli cristiani che tornano alla ribalta della cronaca politica; quindi più sensibile ai messaggi oggi lanciati dalle forze sovraniste. 

È evidente quanto, da tempo, sia saltata la trasmissione della fede. La fatica degli adulti a credere è anche, e ancora di più, la fatica delle nuove generazioni. Cosa è accaduto? 

La fede cristiana oggi non ha più l’evidenza collettiva del passato, quando era tutto il contesto a favorire un orientamento religioso, una prospettiva di fede (e di fede cristiana). Quella cattolica era la cultura comune della nazione, alimentata sia dalla pratica assidua dei fedeli, sia da un insieme di realtà (famiglia, scuola, associazioni di tempo libero) che formavano in questa direzione le nuove generazioni. Nel tempo, questo modello di società si è incrinato, a fronte di cambiamenti strutturali e culturali che hanno ridimensionato l’influenza delle istituzioni religiose sia a livello pubblico che sulle coscienze. Ieri, si viveva in una società in cui era ‘normale’ credere in Dio e frequentare i riti comunitari; mentre oggi è assai diffusa la consapevolezza che quella religiosa sia un’opzione tra le tante. Di qui, dunque, le difficoltà di trasmissione della fede che si avvertono nel tempo presente. Dovute al fatto che non si vive più in un mondo di destino, ma in un mondo di scelte; in una società che anche dal punto di vista religioso è abitata da molte fonti di senso e dall’ampia libertà e possibilità delle persone di scegliere i propri percorsi di salvezza (anche solo umana). 
Circa il passaggio o meno del testimone della fede, risulta dalle indagini che è più facile trasmettere da una generazione all’altra la “non credenza” o una “credenza debole” che un orientamento religioso più impegnato. Ciò non toglie, tuttavia, che i giovani più attivi e convinti dal punto di vista religioso siano quelli che hanno alle spalle famiglie credenti impegnate ed esperienze religiose significative. Una parte dei giovani “senza Dio” e “senza religione” risultano tali per nascita, essendo figli di genitori ‘non credenti’. Ma non sono pochi i giovani oggi ateo-agnostici che hanno un passato religioso fatto di corsi di catechismo, di frequenza di parrocchia e oratori, di esperienze formative negli ambienti ecclesiali. L’ateismo o l’agnosticismo di questi giovani sembrano quindi dovuti a una socializzazione religiosa interrotta, per i motivi più diversi: perché tale esperienza non ha lasciato particolare traccia nel loro vissuto; perché continuando gli studi hanno maturato altri orientamenti; per la difficoltà di riconoscersi in alcune posizioni del magistero in campo religioso o etico; fors’anche per  l’incapacità delle chiese stesse di proporre un discorso sull’uomo, sulla natura, sulla vita sociale, che sia significativo per la coscienza moderna.  

Ha scritto che “viviamo in un’epoca che coltiva un’idea debole e plurale della verità e la religione non fa eccezione”. Cosa significa concretamente?  Il pluralismo religioso è una chance per la fede cristiana o è un pericolo? 

Di per sé dovrebbe costituire una sfida feconda per la fede cristiana, perché il confronto più diffuso con chi non crede, o con chi crede altrimenti, rappresenta un’occasione sia per approfondire le proprie convinzioni religiose, sia per meglio purificare la propria espressione di fede. Tuttavia, una società religiosamente più plurale favorisce anche un diverso approccio alla ‘verità’. A fianco di quanti continuano a riconoscersi nell’idea di una “fede esclusiva” (come unica via di salvezza), si diffonde un “credere relativo” che tende ad assegnare pari valore a tutte le grandi religioni, che sottolinea la rilevanza ‘ambientale’ di ogni messaggio/confessione religiosa, senza la pretesa di operare distinzioni o graduatorie ‘salvifiche’. In parallelo, è ormai consistente la quota di popolazione che sembra auspicare la nascita di una religione ‘universale’ (unica, globale, ecumenica, pacificata), che si fondi su ciò che accomuna le principali fedi mondiali, sia a livello di credenze che di etica. 

Quali posizioni assumono i cattolici italiani di oggi di fronte alle sfide etiche? 

Molti italiani, e anche una parte consistente dei credenti-cattolici più impegnati, chiedono alla Chiesa di essere meno rigida nel campo della morale personale e famigliare, anche riconoscendosi perlopiù nello slogan “si può essere dei cattolici doc pur senza seguire le indicazioni del magistero sui temi etici”. Questo divario emerge in particolare sulla questione dell’eutanasia, un’opzione poco considerata nel Paese sino a qualche anno fa, a cui tuttavia sembrano oggi dar credito circa i 2/3 della popolazione. Questo strappo culturale dagli indirizzi della Chiesa, già registrato nel passato sui temi del divorzio, dell’aborto, delle convivenze, non sembra però estendersi alla sfera della bioetica, a quell’ingegneria genetica su cui prevale invece un’apertura prudente e vigilante. 

Dal suo osservatorio, quale futuro avrà la dimensione religiosa nella vita delle persone? Lei sostiene che il sentimento religioso persiste nonostante il crollo della pratica religiosa. 

In molte aree del mondo la dimensione religiosa è assai vivace e vitale, come vari studi evidenziano. Questa vitalità si osserva anche in Italia (e in parte in Europa) se si guarda a ciò che succede nelle minoranze religiose; anche all’interno di quel cattolicesimo impegnato che è appunto minoritario in una nazione in cui un’ampia quota di italiani mantiene ancora un legame con la fede della tradizione. Dunque, la religione del futuro – alle nostre latitudini – sarà sempre più un fenomeno di minoranza? Tutto sembra andare in questa direzione, anche se si riscontra nell’insieme della popolazione una diffusa domanda di senso e di punti di riferimento, che pure ha difficoltà a trovare sbocchi e ad essere intercettata. Una ricerca di senso ondivaga, che si situa sovente ai margini delle chiese e del sacro ufficiale, che fatica a riconoscersi nelle definizioni convenzionali. Perché questa è l’epoca in cui si tende ad andare oltre gli steccati, in cui si può ammettere di pregare anche senza essere certi di credere, nel quale l’assenza della pratica religiosa non significa la fine del bisogno di Dio. E nella quale molti maturano un rapporto ambivalente con la religione della tradizione, percepita per un verso come parte della propria storia e per un altro come una realtà estranea, perché hanno un contenzioso con la fede e la chiesa che viene da lontano. Il futuro della dimensione religiosa, dunque, dipende anche dalla capacità delle comunità credenti di rispondere a questa domanda di senso instabile, che è un prodotto tipico della modernità avanzata e riflette la precarietà del tempo in cui viviamo.  

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