Il 25 aprile è anche una festa dei cattolici: sono stati tanti, donne e uomini, a contribuire alla liberazione dal nazifascismo. Questi eroi di una resistenza che è stata anche e soprattutto morale si ispiravano ai valori cristiani, soprattutto a quelli trasmessi dalle Encicliche sociali, le stesse che guidano l’operato delle Acli.
Teresio Olivelli, partigiano cattolico, oggi servo di Dio, morto il 22 gennaio 1945 nel lager nazista di Hersbruck compose una bellissima preghiera: “Nella tortura, Signore, serra le nostre labbra. Spezzaci, non lasciarci piegare. Ti preghiamo, Signore, noi ribelli per amore”.
Tra loro, ricordiamo Maria Eletta Martini, Tina Anselmi, Gisella Floreanini: meno note dei colleghi uomini, il loro apporto fu determinante.
Durante la Resistenza non era ancora nata nelle donne la richiesta urgente di suffragio universale, né c’era la matura consapevolezza di rivendicazioni distinte e diverse da quelle prioritarie per tutti, cioè la libertà e l’indipendenza nazionale. Nelle cattoliche, la principale istanza di libertà era soprattutto legata alla sfera spirituale e confessionale. Le donne cattoliche della resistenza, per lo più, erano già da prima impegnate in gruppi e in movimenti che avevano a cuore temi sociali. Nell’estate del 1942 a Piacenza il Movimento dei laureati cattolici tenne un convegno sul tema “Se la morale cristiana legittimi la ribellione contro la tirannide”. Parteciparono molte dossettiane ed esponenti dei Gruppi di Difesa della Donna: si creò in quel periodo un fenomeno politico insolito, per cui esponenti cattoliche di rilievo diventarono le più forti alleate di donne di sinistra nelle battaglie politiche, sociali e culturali più importanti. Raccoglievano insieme vestiti, generi alimentari e soldi da mandare ai partigiani, organizzavano cortei e manifestazioni contro il caro-vita e per chiedere aumenti delle razioni alimentari. Furono proprio le donne a vedere i punti in comune laddove gli uomini, pur perseguendo gli stessi obiettivi, restavano divisi. Era il momento in cui, con gli uomini al fronte, erano diventate queste, le capo-famiglia: i Gruppi di Difesa della Donna, aperti ad esponenti di ogni fede politica e religiosa, pur nella consapevolezza dei bisogni più immediati e concreti della lotta di liberazione, trovarono spazio e modalità per discutere anche delle conquiste che verranno dopo la libertà dal totalitarismo. Furono proprio le donne cattoliche le prime ad intervenire, ad organizzarsi, escogitando anche forme di protesta molto originali ed efficaci. Nel 1944, ad esempio, invitarono le mondine a farsi pagare in riso: tutti chicchi in meno da destinare alle provviste dei tedeschi, dunque giorni in meno di autonomia alimentare per loro, cioè di guerra. E proprio nel ’44 ebbero luogo i primi arresti di donne, otto, ad una manifestazione sindacale: cominciava a venire meno l’input cattolico della divisione nitida dei ruoli di genere. E così, accadde che questo intreccio di valori e di impegno sociale, religioso, politico sfociò nelle prime cariche istituzionali di donne, appena venne concesso loro di accedere alle cariche elettive. Quelle che non aderirono alla Democrazia Cristiana continuarono ad esprimere il proprio impegno in movimenti come il Cif e le Acli: le donne di queste Associazioni affondano le radici identitarie proprio nella resistenza cattolica.
D’altra parte, a tante partigiane e staffette non vennero risparmiate violenze e torture, anzi: avendo osato sovvertire quel ruolo di comparse sottomesse che il fascismo aveva attribuito loro, tanto più venne fatto sfregio dei loro corpi e della loro virtù. Il retroterra culturale dei nazifascisti li spinse a punire le donne che avevano osato ribellarsi al regime e che avevano voluto lottare per emanciparsi dal ruolo sociale di ancelle ubbidienti e servizievoli che l’ideologia totalitaria aveva loro riservato. Nella sua accezione simbolico-rituale la violenza sul corpo della donna è infatti un vero e proprio mezzo di dominazione maschilista, che mira a imporsi sul nemico politico proprio sul piano della forza virile: in tutte le guerre le donne, disarmate, i loro corpi sono terreno di conquista, una delle tante armi che si hanno a disposizione per combattere il nemico, al pari delle altre torture, secondo una macabra ritualità. Sul corpo delle donne i nazifascisti rivelarono un sadismo indicibile.
Le donne che trovarono il coraggio di raccontare, dopo, lo fecero soprattutto per denunciare la violenza crudele dei fascisti su ragazze inermi. Prevalse la volontà di denunciare le nefandezze del fascismo e di testimoniare il livello di aberrazione che la guerra civile aveva alimentato. Le donne sopravvissero a questo dolore forti delle loro convinzioni religiose e morali, ma anche grazie al ricordo dei propri famigliari, morti per la libertà. Accomuna quasi tutte le donne della Resistenza il senso del pudore che accompagna questi ricordi, anche dopo anni: il silenzio e l’oblio spesso sono praticati dalle vittime per riconciliarsi con se stesse, le famiglie, per non subire altre umiliazioni e offese dalla comunità che, forse, non crede ai loro resoconti, o per non essere marchiate dallo stigma di essersi in qualche modo “cercate” la violenza. In fondo, pur in altri contesti, accade anche oggi.
La storiografia ufficiale per diversi decenni ha restituito un’immagine univoca della Resistenza: solo più di recente ne è emersa la complessità e la contraddittorietà, ma anche il pluralismo delle adesioni. Sono nate nuove interpretazioni e nuove narrazioni anche di una resistenza compiuta nel silenzio, lontano dal clamore della battaglia, ma portata avanti tra le mura domestiche.
Secondo i dati, le partigiane combattenti furono 35mila, 20mila le patriote con funzioni di supporto, 70mila le appartenenti ai Gruppi di Difesa, 4.633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali nazifascisti, 512 le commissarie di guerra, circa 3mila le donne deportate in Germania. 19 le medaglie d’oro femminili e 17 quelle d’argento al valore militare: questo testimonia quanta parte di “resistenza taciuta”, per dirla con le storiche Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, sia esistita: dopo la Resistenza, molte donne sono state di nuovo chiuse in casa dagli uomini. Le più, all’epoca, avevano circa 20 anni. Le loro battaglie di liberazione sono continuate, in molti casi, tra le mura domestiche.
Chiara Pazzaglia
Coordinamento Donne Acli