Il valore sociale del fisco
I paradisi fiscali rappresentano un tema caldo già da tempo, tornato prepotentemente alla ribalta negli ultimi anni, per la sottrazione di ricchezza che tale pratica comporta nei confronti della comunità, in un periodo di crisi e scarsità di risorse.
La fortuna dei paradisi fiscali nel nostro Paese è costruita su un elemento culturale molto diffuso: la falsa concezione che il fisco non abbia valore sociale. Quanto di più errato! Nel dibattito politico degli ultimi decenni il tema della leva fiscale è stato strumentalizzato in modo ideologico e populista al fine di perseguire l’obiettivo della riduzione indiscriminata dell’imposizione fiscale identificata come la pretesa ingiusta di uno Stato inefficiente. Fatto grave poiché a farsene portavoce è proprio chi questo Stato ha gestito negli ultimi anni in maniera fallimentare, il ceto dirigente responsabile del dissesto della finanza pubblica, dello scadimento dei servizi, dell’appropriazione personale delle risorse pubbliche, della legittimazione dei peggiori comportamenti opportunistici.
Su tali presupposti si sono innestate facilmente le politiche neoliberiste, che hanno cercato di imporre la riduzione del ruolo dello Stato e della responsabilità collettiva a favore del mercato e dell’iniziativa privata. Queste postulano la necessità di un drastico ridimensionamento della presenza pubblica nelle attività economiche e sociali, asserendo che l’intervento dello Stato in economia e volto alla promozione del Welfare sia generalmente negativo. In quest’ottica, la riduzione della pressione fiscale, oltre che affermare una cultura egoista, permette di mascherare la finalità reale che consiste nel ridurre il ruolo dello Stato riducendo le risorse al sistema di protezione sociale attraverso tagli alla spesa pubblica.
Questa impostazione neo-liberista, oltre che mai provata dal punto di vista teorico ed empirico, è contraria anche allo spirito e alla lettera della nostra Costituzione. In altri termini, le imposte sono lo strumento che permette di far funzionare le nostre istituzioni e garantire ai cittadini quelle prestazioni che rafforzano la coesione sociale, lo sviluppo, il godimento dei diritti fondamentali anche da parte delle classi più disagiate.
Senza le risorse provenienti da un adeguato prelievo fiscale, non può esserci un Welfare che funziona e che sia adeguato alle esigenze dei cittadini, non possono darsi politiche di sostegno allo sviluppo e di aiuto alle regioni più povere, non possono essere messi nelle condizioni di operare i Comuni e le Regioni nell’offerta dei servizi essenziali alla comunità e al territorio. Il principio della contribuzione fiscale, come un principio di civiltà, di coesione comunitaria e di solidarietà deve essere difeso. Dovrebbe infatti costituire un valore condiviso, facente parte della coscienza di ogni individuo. Inoltre le tasse sono anche ed essenzialmente una forma di redistribuzione della ricchezza, perché chi ha redditi più alti è chiamato a contribuire in maniera maggiore al funzionamento dei servizi di pubblica utilità. Non è possibile, dunque, parlare di welfare senza considerare il ruolo centrale del sistema fiscale.
Per creare una positiva cultura fiscale nella società occorre puntare a due obiettivi: la legalità (tutti devono pagare le tasse su base di giustizia) e l’efficienza/efficacia dei servizi che sono finanziati col contributo fiscale. Tali ragionamenti valgono altrettanto, se non di più, su scala planetaria. La politica fiscale di un Paese, come pure quella globale, deve essere ispirata a principi di legalità, equità, progressività, giustizia sociale. Deve essere colpita la rendita e puniti i comportamenti economici, le produzioni e i consumi socialmente ed economicamente dannosi. Bisogna limitare il prelievo fiscale sul lavoro per accentuarlo su profitti e rendite. Bisogna investire nella lotta all’evasione fiscale.
Le attuali politiche fiscali sono di pertinenza esclusiva dei singoli Paesi, mentre – come anche la recente crisi ha dimostrato – i capitali soggetti a tassazione si muovono sempre più liberamente su mercati finanziari globalizzati. Al contrario, le esternalità negative prodotte dall’attuale modello di globalizzazione – l’impatto ambientale dei sistemi produttivi o le speculazioni che mettono a rischio la stabilità finanziaria – pesano sull’intero pianeta e su tutta l’umanità. I meccanismi finanziari globali permettono inoltre ai capitali di sfuggire ai sistemi fiscali nazionali con un’importante perdita di gettito tanto nel Nord quanto nel Sud del mondo.
Il sistema finanziario internazionale produce tali perdite di entrate per tutti i Paesi a causa dell’utilizzo dei paradisi fiscali, dei trasferimenti delle multinazionali in Paesi a bassa tassazione e del conseguente sviluppo di una competizione fiscale tra Paesi. Le perdite generate dall’elusione e l’evasione permesse dal presente sistema finanziario, rappresentano per i Paesi del Sud un grave ostacolo alla realizzazione di politiche di sviluppo sostenibili nel medio e lungo periodo.
Un sistema pieno di falle
A livello internazionale, sopravvive un sistema pieno di falle che consente molte scappatoie alle imprese per evitare la tassazione. Sono sempre nuovi e “creativi” i sistemi per celare la proprietà dell’impresa e sfuggire le tasse.
I singoli Stati proseguono sulla strada della “concorrenza fiscale” per attrarre le società multinazionali, anche a rischio di danneggiare se stessi, perché le multinazionali possono sfruttare possibilità non concesse alle imprese nazionali per eludere le tasse: le prime, potendo fare una pianificazione fiscale transfrontaliera, godono in media di un’aliquota più bassa del 3,5% rispetto alle imprese nazionali comparabili, garantendosi un vantaggio competitivo almeno in 20 Paesi europei. In molti di queste nazioni le Piccole e medie imprese scontano tale svantaggio, anche se spesso hanno ingenti sovvenzioni fiscali per accrescerne la competitività, con un’evidente schizofrenia da parte degli Stati.
Numerosi sono poi i paradisi fiscali – di vario tipo e con vario grado di opacità – che consentono di aggirare non solo le regole fiscali, ma anche quelle bancarie, sul riciclaggio di denaro o le normative commerciali e tecniche. Un meccanismo classico consentito dai paradisi fiscali è quello del prezzo di trasferimento tra filiali della stessa società, che è tra i più usati per non pagare le tasse nel proprio Paese di residenza. Il meccanismo è noto: basta avere una filiale in un paradiso fiscale e far passare fittiziamente la produzione di lì e il gioco è fatto per non far comparire profitti o addirittura far risultare perdite per accedere agli sgravi fiscali o altre forme di sostegno pagate dai contribuenti. Di recente la rivista Valori ha rivelato che sono state registrate esportazioni da paradisi fiscali di succo di mela a 1.012 dollari al litro o spazzolini da denti a 5.600 dollari l’uno.
Sistemi ingegnosi, persino divertenti se non comportassero un altissimo costo economico e sociale. L’evasione fiscale costa all’Europa 1.000 miliardi all’anno e ciò fa aumentare i costi delle nostre tasse, aggrava la crisi del debito e riduce i fondi per gli investimenti e la sicurezza sociale. Il problema è rilevante anche in Italia: secondo l’ufficio di Informazione finanziaria (Uif) di Bankitalia, che ha pubblicato un quaderno su «Paradisi fiscali: caratteristiche operative, evidenze empiriche e anomalie finanziarie», i principali paradisi fiscali (i 58 cosiddetti “Paesi a rischio”) attraggono un quarto degli investimenti di portafoglio mondiali (9.500 miliardi di dollari nel 2011 secondo il Fmi). I depositi bancari effettuati da non-residenti in questi paradisi sono il 30% di questi depositi nel mondo. Gli investimenti italiani nei paradisi fiscali ammontano a 500 miliardi di euro, cifra che rappresenta il 45% del totale degli investimenti domestici, e attraggono il 17% dei nostri bonifici con l’estero. Gli investimenti esteri diretti nel mondo provengono al 40% da qui, in Italia il 45%.
Il problema democratico
Così com’è, il sistema fiscale internazionale resta un sistema profondamente antidemocratico, che consente ai più ricchi di eludere le proprie responsabilità a danno dei meno fortunati, perpetuando le disuguaglianze. Un sistema in cui pochi Paesi ricchi decidono tutto, tenendo fuori gli altri, specie i Paesi in via di sviluppo che di questo sistema scontano le conseguenze peggiori. Oggi più di 100 Paesi restano esclusi dai processi decisionali che stabiliscono regole e standard fiscali globali. In passato anche l’Onu aveva fatto tentativi per creare un organismo fiscale globale, ma di fronte a grandi opposizioni (anche dell’Ocse) si è limitata a mantenere una commissione di esperti, che non prende decisioni a livello intergovernativo.
Alla Conferenza di Addis Abeba sul finanziamento dello sviluppo svoltasi l’anno scorso la questione è stata discussa con l’intento di cambiare lo stato delle cose ma l’Unione europea ha contrastato la creazione di un organismo fiscale davvero globale. Nessuno Stato membro si è opposto.
In effetti, gli Stati europei non brillano sotto questo profilo: il rapporto Stop Tax Dodging, coordinato da Eurodad con il contributo in Italia di Re:Common, informa che tra essi la Francia, che ha sostenuto sempre la trasparenza fiscale, ora non la chiede più e sempre più Paesi chiedono la riservatezza su quanto pagano le multinazionali. E se Danimarca e Slovenia sono leader nella trasparenza avendo introdotto registri e dichiarato l’intenzione di limitare i sistemi per celare la proprietà, in Lussemburgo e Germania, invece, sono ancora disponibili molte opzioni per far questo e per riciclare denaro. La Spagna è il Paese con la politica fiscale più aggressiva nei confronti dei Paesi in via di sviluppo, avendo negoziato trattati in cui in media ha ottenuto uno sconto delle aliquote fiscali del 5,4%.
Inoltre la promessa trasparenza sull’operato delle multinazionali nei confronti dei cittadini, dei parlamentari e dei giornalisti è ancora lontana dall’essere praticata. Ancora a lungo si avranno trattative bilaterali segrete tra multinazionali e amministrazioni fiscali e l’opinione pubblica non saprà nulla. Poco è possibile conoscere anche circa l’effettiva proprietà delle imprese.
Allora è essenziale fare pressione sulle istituzioni europee affinché adottino linee di condotta più coerenti e amplificare in ogni modo il controllo democratico. È ormai noto che anche le grandi imprese temono il danno di immagine e di reputazione che può venire dalla diffusione di certe informazioni nell’opinione pubblica, e spesso, di fronte a tale eventualità, riformulano strategie e riallineano le condotte.
Organizzazioni come le Acli e come Oxfam Italia, con la quale abbiamo condotto un webinar su questi temi e che in merito alla giustizia fiscale internazionale ha lanciato una raccolta di firme (dettagli nelle slide allegate), possono, mettendo insieme le forze, contribuire molto a restituire il potere di controllo democratico ai cittadini.