Articolo di: Daniele Rocchetti, responsabile nazionale Vita cristiana Acli
Quello che era Aleppo
L’ultima volta che sono stato ad Aleppo un solerte funzionario alla dogana dell’aeroporto notò sulla mia valigia un adesivo di un albergo israeliano che avevo posto in un precedente viaggio. Per questo la bloccò e, appena arrivato in città, fui costretto a recarmi nel suq – che le guide riportavano essere il più grande al mondo, esteso per diversi chilometri – per acquistare gli indumenti necessari per i giorni di permanenza. Quel dedalo intricato di vie cosparse da mille odori e profumi – che l’Onu nel 1986 dichiarò “patrimonio mondiale” – oggi non c’è più.
Bombardato e distrutto durante gli scontri tra ribelli e governativi. Come non c’è più l’Aleppo – bellissima! – che ho visitato in lungo e in largo: la Cittadella e la grande Moschea, l’antico quartiere di Al-Jadidah, vicino alla Bab al Faraj, la Porta del Paradiso, abitato dalla borghesia cristiana di origine armena, molta della quale arrivata in fuga dai turchi che, agli inizi del Novecento, la voleva eliminare: belle case, spaziosi ed eleganti giardini, magnifiche chiese. Non lontano, alcune sinagoghe, a testimonianza di una presenza ebraica che si perde nei tempi e che per secoli ha custodito uno degli antichi manoscritti della Bibbia.
Aleppo era questo: un crogiolo di mondi, di popoli e di fedi. Undici confessioni cristiane presenti, molte delle quali incontrate nel mio peregrinare. Tutte orgogliose di sostenere che la città era un laboratorio di convivenza tra cristiani e tra cristiani e mussulmani. Oggi, dopo cinque anni di guerra e di assedio, quel laboratorio è stato distrutto. Non c’è più la città, non ci sono più i monumenti, non ci sono più i cristiani, 35 mila invece dei 300 mila presenti all’inizio del conflitto, uccisi o costretti a fuggire.
La “terza guerra mondiale a pezzi” e l’impotenza della politica
Aleppo, la nuova Sarajevo, pedina inconsapevole di uno scacchiere geopolitico mosso da attori che stanno fuori i confini siriani, business per i molti piazzisti d’armi d’Occidente, ultimo incrocio di quella che papa Francesco ha coraggiosamente chiamato la “terza guerra mondiale a pezzi” è divenuta il simbolo di questa folle guerra. Ma simbolo anche dell’impotenza della politica. Come mi ha detto recentemente mons. Pierbattista Pizzaballa, arcivescovo di Gerusalemme, “I militari non possono fare la pace ma soltanto vincere la guerra. Per la pace ci vuole la politica che non c’è e non si sa bene ciò che ci sarà”. Quella politica che non riesce nemmeno a garantire l’incolumità ai civili, facili bersagli dei cecchini dell’una e dell’altra parte.
“Cari umani, vorrei un corridoio umanitario ad Aleppo”. È il desiderio che un anonimo viaggiatore ha lasciato, nei giorni scorsi, su un biglietto appeso all’albero di Natale della stazione Termini di Roma. In coda un “grazie” in diverse lingue.
Natale, elogio della debolezza, corpo che esige cura
In questi giorni faremo memoria del “Principe della Pace” e ascolteremo le parole degli angeli: “Pace in terra agli uomini che egli ama”. Custodiremo in silenzio il senso di impotenza che pare attanagliarci e che insinua il sospetto che niente nel mondo possa cambiare. Contempleremo, nella vicenda del nostro Dio che sceglie di farsi carne in un cucciolo d’uomo, l’elogio della debolezza. La debolezza del Dio bambino è la nostra debolezza di fronte al dramma di Aleppo, al dramma del mondo: non è indifferenza o rassegnazione ma fragilità e fatica, domanda sempre aperta, corpo che esige cura. Un Dio incarnato che non abita solo nell’alto dei cieli, che è riflesso nel volto di ogni uomo, perché, come dice il Talmud, “Dio sa contare solo fino ad uno” e sollecita ciascuno di noi a fare spazio all’altro.
Ad aprire i nostri orizzonti, a credere che il destino di ciascuno, specie se povero e disperato, braccato dall’insensatezza della guerra voluta dagli uomini, è il riflesso del destino di quel Dio che, in Gesù di Nazareth, nato a Betlemme, chiede a ciascuno la responsabilità di costruire il pezzo di mondo affidato con passione e dignità.
Auguri!