Le Acli toscane hanno incontrato don Giovanni Momigli per parlare del suo recente libro “La città plurale. Migrazioni, integrazioni, unità civica” che ha riscosso subito forte interesse anche perché le riflessioni e le proposte di don Momigli si basano su un’esperienza concreta, effettuata “sul campo” nei 25 anni in cui è stato parroco di S. Donnino località antesignana dei flussi migratori e delle problematiche a essi legate.
Proprio per questa esperienza sulla multiculturalità il Comune di Campi Bisenzio (Fi) ha conferito a don Momigli la cittadinanza onoraria.
Di seguito l’intervista a don Momigli realizzata da Gabriele Parenti dell’area comunicazione Acli Toscana, insieme a Giacomo Martelli, presidente delle Acli Toscana.
D. Lei scrive libro che in tema di integrazione non è sufficiente camminare accanto…
R. La persona ha bisogno di relazione. Senza la quale, la stessa identità diviene astrazione. In tema di integrazione, ma non solo su questo, è certamente necessaria l’apertura al confronto, ma non si possono né teorizzare né vivere praticamente – come invece troppo spesso oggi avviene – cammini paralleli.
Quindi, dobbiamo camminare insieme, con obiettivi comuni, lavorando per raggiungerli mettendo in comune quel che ciascuno è cosa può fare. Inoltre, ritengo che prima della concretezza dei percorsi, sia necessario un radicale cambio di mentalità, di atteggiamento. Se questo non avviene, i processi di interazione e di integrazione rimarranno una chimera.
D. Lei ci esorta a prendere la rincorsa. Cosa significa?
R. Prendere la rincorsa vuol dire attivare veri e propri percorsi di integrazione, che debbono necessariamente coinvolgere sia le persone che arrivano sia la popolazione locale, andando oltre le prassi inconcludenti che caratterizzano le azioni messe in atto. Una nuova progettualità che punti non solo al controllo, ma al governo del fenomeno migratorio, può nascere solo se riusciremo a fare una salto etico, culturale, sociale e anche politico. Per fare un salto è necessario prendere la rincorsa. E a me pare che si sia ancora fermi. Ma senza questo salto di pensiero e operativo, non riusciremo ad affrontare positivamente le sfide poste dal fenomeno migratorio, trasformando in risorsa per l’intera comunità le indubbie problematiche che questo fenomeno pone.
D. In che modo si può trasformare il fenomeno migratorio in risorsa per l’intera comunità?
R. I vari modelli di integrazione non paiono adeguati alla situazione attuale. In Italia, poi, si può parlare di un modello ibrido: assimilazionista negli intenti e multiculturale nella pratica, con tutte le storture che questo comporta. Io ritengo che la nostra società, che di fatto è sempre più plurietnica, debba essere interculturale, intendendo l’intercultura non come dato ma come processo.
D. Qual è, allora, la sua proposta?
R. Più che un modello, sulla base della mia piccola esperienza, propongo un principio operativo, mosso e sostenuto da logiche deduttive e induttive, che si interrogano e interagiscono. Un modello che colloca l’intera vicenda migratoria entro una precisa visione di società, con forte aderenza ad alcuni valori chiave e alla concretezza del contesto, assumendo l’interazione come orientamento di fondo e come modalità operativa.
D. Quale ruolo possono e devono avere le città?
R. La città, anche se deve divenire sempre più efficiente, pure sul versante digitale, non può essere pensata solo nella sua dimensione funzionale. La città ha un cuore che batte: quello delle donne e degli uomini che la abitano. Ecco perché la città è pure lo spazio dei sentimenti, della capacità di evocare la memoria e di progettare il futuro. La città è data dal protagonismo di chi l’abita.
D. Come arrivare, dunque, alla città plurale coniugata con l’unità civica?
R. La città è il luogo principe per la concretezza dei processi di interazione ei integrazione. Del resto le città sono frutto dell’incontro fra culture diverse e oggi sono proprio le città che possono svolgere un ruolo fondamentale anche per ridare alla politica il senso del progetto, ritrovando un coinvolgimento nuovo dei cittadini. La comunità civica, però, deve essere una, pur nella molteplicità delle sue articolazioni. L’unità civica tuttavia può realizzarsi quando gli abitanti di una città si sentono parte di essa. Questo presuppone che vengano riconosciute le somiglianze ma anche le differenze e che vengano valorizzate entrambe. L’unità civica è data dal condividere, non tanto i presupposti, che oggi sono diversi in relazione alla storia, alla cultura, alla religione e all’esperienza di ciascuno, ma almeno lo scopo. E questo ci riporta all’inizio: non camminare accanto, ma insieme, interagendo costantemente.