di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla vita cristiana
Da Montereggio, piccola frazione di Mulazzo, paese della Lunigiana dove ora vive, nell’Ottocento sono partiti in molti con una gerla di libri in spalla e l’intento di aprire librerie nei paesi e nelle città del Centro e Nord d’Italia dove ancora non c’erano. Generazioni di uomini e donne che hanno fatto la storia del libro nel nostro Paese. Al punto che Montereggio oggi è l’unico posto in Italia inserito nel circuito internazionale delle Book Town. Ma non è questa la ragione che un anno e mezzo fa ha portato lì don Alessandro Dehò. Piuttosto, da quelle parti ha trovato una casa, immersa in un bosco di castagni, dove dedicarsi alla preghiera, al silenzio e all’ascolto dei tanti che, prima del Covid, salivano a trovarlo. “Mi sento fratello tra i fratelli, cerco di offrire uno spazio accogliente d’incontro. Accompagno più che dare soluzioni”. Una vita semplice, in un luogo spopolato, sulla via Francigena, non lontano da un santuario, un tempo priorato benedettino dedicato a Maria. Nel frattempo Alessandro – ci conosciamo da molto prima che decidesse di entrare in Seminario – scrive e pubblica testi che raccontano il suo continuo e incessante confronto con la Parola. L’ultimo – La Parola libera. Lacrime e baci, Paoline 2021 – settimana scorsa era al quarto posto nella classifica stilata da Avvenire dei libri più venduti. Un libro, da leggere, che parla del re Davide ma, ancora di più, della Parola e di quanto questa intreccia e può liberare le parole e la vita di ciascuno.
Sei prete da quindici anni. Curato prima e parroco dopo. Come è cambiato in questi anni il tuo rapporto con la Parola?
Il rapporto con la Parola è sempre stato essenziale, certo sono cambiato io e Lei, la Parola, paziente, mi ha accompagnato con fedeltà commovente. Se non mi sono sentito solo è perché la Parola trovava sempre il modo di raggiungere il cuore di ciò che ero. Non credo di esagerare se dico che mi ha salvato la vita. Apriva orizzonti nuovi, apriva strade dove io vedevo solo chiusura di acque pericolose, mi aiutava a trovare le parole giuste quando le mie non reggevano la prova degli eventi. A volte, spesso, mi ha messo e continua a mettermi in crisi. Il mio rapporto con la Parola è diventato ed è sempre più essenziale, vitale.
Da curato la Parola spesso era ciò che mi faceva cercare il Senso nella pastorale ordinaria e la visione Alternativa delle cose (Senso e Alternativo erano due parole che ricorrevano spesso). Ma più di tutto la Parola mi ha aiutato, con sofferenza, a fare a pezzi un progetto pastorale troppo intellettualistico, la parola libera, e la libertà ha un prezzo, distruggere e rimettersi in gioco. Quando la propria idea di mondo diventa più importante delle persone arriva la profezia della parola a dirti che è meglio rimettere tutto in gioco. Per te e per gli altri. La Parola è viva.
Da parroco la Parola è diventata tutto, in ogni cosa, davvero in ogni aspetto io sentivo che senza la Parola incarnata in quella storia niente avrebbe avuto senso. Alla Parola tornavo continuamente non solo nella predicazione ma anche davanti alla vita concreta: al nascere, al soffrire, all’amare, al morire. Una Parola che cresceva con le parole della gente. Con la narrazione delle loro storie.
Quando mi sono accorto che la mia di storia mi stava portando a rimettere in gioco un certo modo di essere prete ho sentito subito che la cosa che non posso lasciare era proprio un rapporto intimo e costante con la Parola. Mi sento fortunatissimo ad avere tanto tempo per sostare in Sua compagnia. La sento anche come una responsabilità: lo stupore e la verità che sento io vorrei condividerla.
Ora vivi in Lunigiana in una casa vicino ad un eremo posta in un piccolo borgo abitato da pochissime persone. Qual è il senso della tua scelta?
Il senso ultimo lo scoprirò solo alla fine. Io lo sto imparando giorno dopo giorno. Ad oggi potrei dirti, citando Adriana Zarri, che un senso potrebbe essere il “semplicemente vivere”. Vivo in una casa, nella normalità di una casa, e questo credo sia la dimensione più vicina a ciò che sono io. Io Alessandro. Prego, scrivo, spero di tornare ad accogliere persone dal vivo quando finirà questa pandemia. Condivido la Parola. Aiuto in parrocchie piccole qui attorno che sono rimaste senza parroco. Il senso credo stia tutto qui, ed è il senso di una vita grata e pacificata, al servizio semplice della vita che accade. Sono fortunato perché mi sento liberato da un ruolo, quello di parroco, che ho amato, che ho cercato, che ho anche onorato fino in fondo ma che non sentivo più mio. Ringrazio i vescovi di Bergamo e di Massa Carrara che hanno capito e che si sono fidati di me. C’è molta libertà in questa mia vita ma ho scoperti che, paradossalmente, è più esposta. Non mi sono ritirato, mi sono ulteriormente spogliato, sono più vulnerabile e periferico, gli incontri che avvengono non sono mediati da un ruolo rigido e questo facilita chi mi cerca ma espone tanto me, in prima persona. Bisogna essere ancora più veri e più disposti a lasciarsi ferire. Non si può fingere appellandosi appunto a un ruolo. Per usare un termine che papa Francesco usa molto: periferia. Il senso è quello di farmi periferico, il più possibile. Non tanto di parlare di periferie ma di diventare periferico. E felice. Io vorrei essere, per chi mi incontra, una persona felice di stare al mondo, di preparare da mangiare, di camminare, di pregare, di stare in silenzio, di scrivere, di giocare col cane… non è questo poi il senso di una vita? Far prevalere la gratitudine sul risentimento, la pacificazione sulle lotte di potere, la povera ma vera nostra identità sul ruolo, che rischia di uniformare e schiacciare. Sono fortunato.
Qualcuno potrebbe dire che la tua è una fuga. Cosa rispondi?
Si potrebbe rispondere in mille modi. E’ una domanda lecita. Quando mi sono accorto che la storia mi stava portando a rimettere in gioco il mio stare in parrocchia sono andato a cercare un padre gesuita e la prima mia domanda è stata “aiutami a capire se sto scappando o se c’è altro in questo desiderio che sta crescendo”. Adesso dico che restare dove ero sarebbe stata la vera fuga, da una fedeltà a me stesso e anche a quel Signore che continua a chiamarmi. E sarei diventato triste e risentito. Di sicuro. Poi il tema della fuga è complesso. Non è un problema fuggire, ognuno di noi fugge da qualcosa, siamo figli di una fuga (dall’Egitto del faraone) e Cristo inizia la sua vita fuggendo in Egitto, il vero problema è se la fuga serve a mettere in salvo solo noi oppure diventa invito al servizio. Il popolo ebreo non passa dalla schiavitù alla libertà ma dalla servitù al servizio (è il titolo di un bel libro di qualche anno fa) e anche Gesù non fugge per mettersi in salvo ma per diventare sempre più uomo di comunione. Ecco la domanda vera potrebbe essere “quale oggi il tuo servizio all’uomo?”.
Il tuo nuovo libro ha in filigrana la storia del re Davide. Che cosa ti intriga di questa vicenda?
Mi intriga tutto di Davide, a livello di storia, tutto. Mi intriga la complessità della sua vicenda umana e il coraggio dell’autore di fare entrare tutto, anche le contraddizioni, nella pagina biblica. Mi intriga la relazione tra i diversi volti di Davide che compaiono. Mi interroga sempre la forza di Gerusalemme, la forza del sistema a cui non può resistere nemmeno il grande Davide. Gesù nasce e muore fuori Gerusalemme, non è un caso. Mi colpisce che solo un profeta può risvegliare Davide dal torpore del potere. Mi piace la danza della Parola che è fedele a quest’uomo più di quanto lui sia fedele a Dio, agli uomini e a se stesso. E’ consolante.
In realtà, la storia di Davide è lo spunto per rimettere al centro della vicenda umana e spirituale di ciascuno la Parola. E’ così? E perché “la Parola libera”?
Sì, è così. Quando le Paoline mi hanno chiesto se mi andava di scrivere qualcosa “sulla Parola” io ho pensato o subito a una storia, concreta, mi sembra impossibile parlare della Parola astrattamente, occorre che si faccia carne. Il libro in effetti non è un libro su Davide ma sul rapporto d’amore tra la parola e l’uomo. La parola è libera nel senso che quando cerchiamo di circoscriverla magari assolutizzando una sola interpretazione abbiamo perso la Parola, che è già anche da un’altra parte. Ci vuole umiltà per stare nella Parola, noi possiamo solo balbettare la nostra umile esperienza d’amore con lei. La parola anche libera, nel senso che produce l’azione di liberare chi ascolta con coraggio. Quando le mie paure mi bloccano solo una parola può rimettere in gioco la vita. Cristo con una Prola libera Lazzaro dal sepolcro. Con una parola che diventa alleanza rimette in gioco la storia di chi stava ai bordi della vita. La Parola, se ci fidiamo di lei, libera orizzonti inaspettati. Ne sono sicuro. Ne ho fatto esperienza.
Come la Parola aiuta a recuperare l’essenziale della vicenda umana?
Credo che per fare questo serva, in chi legge, prima di tutto l’atteggiamento del coraggio: davanti a un brano biblico io devo accettare di mettermi in gioco. Seriamente. Altrimenti farò delle riflessioni ma se tutto si ferma a livello del pensiero non si arriva all’essenziale. Perché la Parola arrivi all’essenziale serve un silenzio contemplativo che vuol dire saper entrare ne profondo del visibile per sentire che in ogni cosa c’è il respiro lieve della vita. Solo un approccio poetico e contemplativo alla vita ci permette di sentire cosa sia davvero l’essenziale. L’essenziale è che ogni cosa è amata. E quindi anche io sono amato, questo sussurra senza sosta la Parola. Ed è un sussurro liberante.
“Fidati della Parola” è un tema ripetuto nel tuo testo. Cosa vuol dire per la vita di un credente?
Significa avere coraggio. Pensa ad Abramo, è sul monte con il figlio Isacco messo su un altare e finalmente arriva la parola del Padre, è una parola non è un angelo che blocca la mano!, che dice “lascia andare Isacco”. Fidarsi della Parola è diventare padri, fidarsi della parola vuol dire uccidere l’ariete che è il simbolo di una paternità potente, fidarsi della parola significa lasciar essere il figlio diverso dal padre e rimanere vivi per benedirlo il figlio, per benedire quella libertà, quel suo diventare diverso sa me e sostanzialmente incontrollabile. Fidarsi della parola è diventare padri benedicenti. I padri che non sanno farsi da parte e benedire i figli non si fidano della Parola, magari la usano e la commentano ma non si fidano. Cristo si è fidato fino in fondo. Abbiamo urgente bisogno di una generazione di padri non nostalgici e non risentiti, padri capaci di morire con fede, e benedicendo.
E per la vita della Chiesa?
Per la vita della Chiesa credo la Parola sia un invito alla leggerezza, a non preoccuparsi se le istituzioni muoiono, anzi a ringraziare, perché tanto il nostro modo di rendere visibile l’Invisibile è sempre parziale, se viene a mancare una certa idea di chiesa non è un problema, è fisiologico, perché la Parola è polline, e il polline solo libero è fecondo. Non sto dicendo che non servono le strutture ma che le strutture devono imparare a morire, come il seme, senza rancore e benedicendo.
Nel tuo attuale particolare ministero hai la possibilità – anche attraverso diversi canali social – di metterti in ascolto di molte persone in ricerca. Quali sono le domande, le invocazioni più profonde che ti interpellano maggiormente?
Ogni storia è diversa, ed ogni storia è preziosa. Arriva alla Crocetta tanto amore e tanto dolore, intrecciati. Mi pare cerchino tutti il volto non giudicante di un amico che li ascolti. Io non faccio fatica ad accogliere le storie così come sono, davvero neanche un po’, siamo tutti poveri cristi amati e perdonati. Mi sento in comunione reale con loro. Mi commuove tanto la fiducia che hanno. A volte sono storie che si muovono fuori dai margini della morale abituale, io vedo solo tanti miracolosi tentativi di amare e di essere amati, e loro si sentono accolti e stupiti ringraziano. Tutti cercano un volto di Dio più adulto, come se la visione ereditata dal catechismo non tenesse più il confronto con la vita. E allora insieme proviamo a immergerci nella Parola e per me è un regalo enorme quello che mi fanno. Sono le parole ascoltate a bussare alla Parola, e lei ci lascia entrare e tutto trova Senso. O meglio il Senso trova noi.