Con l’elezione di Donald Trump si apre una nuova fase nella vita politica degli Stati Uniti.
Prima con la Brexit e ora con il neo presidente, il messaggio lanciato dai cittadini è chiarissimo: di fronte alle incertezze legate a una crisi di rappresentanza e alla paura del diverso, la scelta è caduta su politiche di chiusura e segregazione sociale: il muro per impedire il flusso migratorio dal Messico, l’azzeramento degli accordi sul clima di Parigi, la liberalizzazione del commercio delle armi.
D’altra parte, però, Trump ha saputo cogliere e rappresentare tutte le contraddizioni della globalizzazione, vista dalla maggioranza degli elettori come la ragione principale della crescita delle disuguaglianze economiche e sociali.
Questioni che ci rimandano al quadro politico e sociale del nostro Paese, dove il sentimento di rivalsa e di giustizia che anima i ceti popolari deve trovare una soluzione adeguata e coerente da parte della classe politica riformista.
Non vogliamo entrare nel merito della vita politica degli Stati Uniti, che in maniera democratica hanno eletto il loro rappresentante. Un dato, però, colpisce: il boom di Trump è dovuto ai voti di chi vive in zone degli Stati Uniti con economie deboli. Uno spunto che decisamente ci interessa, perché lega il successo di Trump, non tanto ai livelli di disoccupazione “attuale”, ma alla sensazione di poter perdere “in futuro” il proprio lavoro.
È proprio dal modo di operare verso questo elettorato, composto dal ceto popolare, dal ceto dei lavoratori, che le Acli guarderanno alla presidenza Trump.