di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana
Una sera a cena con alcuni amici e tra questi un prete. Si ragiona di futuro della fede, di futuro del cristianesimo. Leggo loro una parte di un lungo articolo che Susanna Tamaro ha scritto sul Corriere della Sera per recensire il nuovo libro di Paolo Mastrocola (Leone, Einaudi).
Il cristianesimo sta morendo
Se c’è una cosa che mi impressiona è la totale eclissi del cristianesimo dal panorama della nostra società. Duemila anni di storia, di arte, di bellezza, di tradizione, di solidità, di valori condivisi, cancellati con un colpo di spugna in meno di vent’anni. E non parlo delle inchieste sociologiche, dei vari movimenti che sbandierano improbabili nostalgie del passato, delle alte discussioni in campo teologico, ma semplicemente della nostra vita quotidiana. Nel paese in cui vivo da trent’anni, in Umbria — la terra che forse ha dato più santi al mondo — quest’anno i battesimi sono stati due, e non certo per mancanza di nascite. E anche i pochi bambini che ancora frequentano la catechesi per accedere alla Prima Comunione lo fanno per lo più con lo spirito del servizio militare: una forca caudina attraverso la quale, per ragioni ormai misteriose a tutti, bisogna per forza passare e al termine della quale, in molti casi, non hanno capito né imparato nulla. Intorno a loro, il cristianesimo — la forza che ha sorretto e reso grande la nostra civiltà — non esiste più. E non esiste perché il sacro è stato divorato a grandi morsi fuori e dentro la chiesa, e quello che rimane spesso non è altro che una vestigia identitaria nostalgica o un abito esterno che si indossa per tradizioni sociali. Il cattolicesimo non viene più visto come una chiave di lettura del mondo ma, nel migliore dei casi, come una succursale dei servizi sociali o di qualche laica Ong. Apparentemente questa scomparsa non ha provocato alcun danno, ma se scostiamo la comoda tenda della superficialità, non possiamo non accorgerci che la nostra specie, quella umana, ha imboccato una strada che la spinge ad essere sempre più estranea a sé stessa. Il mito dell’efficienza, della felicità a tutti i costi, del consumo e dell’intrattenimento idolatrico dominano a tutte le latitudini e, dietro questo dominio, non è difficile intravedere gli inquietanti segnali di una nuova barbarie.
Un’analisi severa ma lucida e puntuale. Che fa a pugni con la narrazione che va per le maggiore dalle nostre parti, dentro le nostre comunità cristiane. E cioè che la crisi che abbiamo sotto gli occhi in modo evidente sarà passeggera, che ritornerà il tempo, è questione di poco, in cui tutto tornerà come prima: le chiese di nuovo piene, i giovani ancora con noi. Un’analisi che ritiene l’attuale cambiamento storico profondo e non superficiale, irreversibile e non provvisorio. Come se si aprisse una nuova pagina di storia dell’umanità. L’ha detto molto bene papa Francesco parlando al Convegno di Firenze della Chiesa italiana:
Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo.”
Intanto noi siamo in mezzo al guado. La tentazione è di tornare indietro, verso lidi sicuri di un tempo. Peccato che non ci sono più, né i lidi né il tempo. Occorre dunque stare con coraggio e fiducia nel tempo presente. Enzo Biemmi nel suo prezioso impegno sul “secondo annuncio” ce lo ricorda spesso. In fondo in cristianesimo che ci sta davanti non appare peggiore di quello che ci sta alle spalle. Come si fa a
rimpiangere un cristianesimo dell’obbligo e dell’abitudine e non gioire per un cristianesimo della grazia e della libertà?
Riscoprire le cose essenziali e solo quelle
Il problema è cosa fare dopo l’analisi. Come stare dentro, da credenti, questo nuovo parto. Sollecitiamo l’amico prete a reagire. Le sue osservazioni ci colpiscono. Non bisogna temere ciò che sta avvenendo, anzi occorre guardare con fiducia il presente. Non è la prima volta che assistiamo ad un cambiamento epocale che scuote alle radici la credibilità della proposta cristiana. Non bisogna spaventarsi. È tempo, piuttosto, di grande immaginazione. Perché non è il Vangelo a essere messo in scacco ma, piuttosto, la modalità con la quale noi cristiani fino ad ora lo abbiamo vissuto e comunicato. Non è la fine della fede ma di una certa fede. E per fortuna, aggiunge. Siamo di fronte ad una pagina nella quale è inutile voler copiare le stesse parole delle pagine precedenti ma nelle quali è invece necessario far vivere lo stesso spirito. Ecco perché anziché difendere tante cose secondarie bisogna riscoprire e far rivivere quelle essenziali, e solo quelle. A discernere tra sostanza e forma, tra consuetudini e verità, come un pellegrino che deve compiere un lungo cammino e che deve mettere nella sua bisaccia tutte e solo le poche cose essenziali. La Parola, la cura liturgica, la formazione. Noi aggiungiamo anche la passione per la città. Perché se la fede non custodisce l’umano non è fede in Gesù Cristo. In fondo, dopo l’incarnazione la grande basilica dove i cristiani trovano le sue tracce è il mondo. La sfida, ci diciamo, è la compagnia con gli uomini del nostro tempo, l’ascolto dei soffi più nascosti della ricerca del senso della vita, che ci sono anche nei più assorbiti nella cultura apparentemente dominante dell’età del vuoto. Attraverso la gioia, l’allegria dei credenti. Non attraverso sguardi risentiti attanagliati da voglie di rivincita.
Una nuova forma di cristianesimo. Tra “indifferenti” e “differenti”
Quello che è certo è che stiamo velocemente camminando verso una nuova forma di cristianesimo. Un cristianesimo per scelta e dunque un cristianesimo di minoranza. Dove si giungerà alla fede per conversione e per convinzione. Piccole comunità fondate più sulle relazioni che sulle strutture, in una pastorale più di proposta che di conservazione. Non spaventate di essere una “parte”, neanche la più consistente, del “tutto”, in una società sempre più “plurale”, segnata sia dalla crescita esponenziale degli “indifferenti”, sia dal timido ma costante affacciarsi nei nostri territori dei “differenti”, uomini e donne che credono in un Dio diverso dal Dio di Gesù Cristo. Una Chiesa, quella di domani, che papa Francesco continua a delineare come una Chiesa fedele allo “stile” di Gesù e dunque che non si presenta come una istituzione detentrice di un sistema di dogmi da insegnare al mondo ma spazio in cui le persone trovano la libertà di far emergere la presenza di Dio che già abita la loro esistenza.
Noi coppie attorno al tavolo pensiamo ai nostri figli e alla fatica della trasmissione della fede. Vorremmo farcela, vorremmo dire loro che, nonostante tutto e nonostante ciò che a volte la Chiesa mostra, il Vangelo è buona notizia, è parola di vita buona. Che rende la vita bella di essere vissuta