Per il momento c’è lui, il Rei, il reddito di inclusione. È rivolto ai cittadini più deboli, quelli che non superano una certa soglia di reddito. È entrato in vigore il primo dicembre e l’Inps pubblica ora dei dati per dirci che sta andando bene. Questa non sarebbe, in realtà, una “buona notizia”, perché significa che la povertà è molta e – come al solito – è mal distribuita. Nel sud Italia il Rei è richiesto quattro volte più del Nord Italia.
Contemporaneamente la Rete della protezione e dell’inclusione sociale ha approvato un Piano per gli interventi e i servizi di contrasto alla povertà. Il Piano utilizza la parte del Fondo povertà dedicata al rafforzamento dei servizi del welfare territoriale per chi gode del Rei.
Siccome il Rei non è solo un trasferimento di soldi ma anche un beneficio di servizi territoriali, allora si prevedono dei progetti personalizzati affinché la persona possa pian piano affrancarsi dalle condizioni di bisogno. E anche qui la disomogeneità tra il nord e il sud avrà qualche effetto sull’offerta dei servizi.
Conclusione. Nell’attesa del reddito di cittadinanza, il reddito di inclusione è già un elemento sul quale lavorare per implementare la platea degli aventi diritto, ovvero i poveri assoluti. Altro ragionamento si dovrebbe fare rispetto ai cosiddetti poveri relativi, cioè quelli più fragili, quelli che rischiano di entrare in condizioni di povertà: basterà una qualche forma di reddito a loro tutela o serviranno delle serie e innovative politiche del lavoro per favorire la loro autonomia?
Se sulla povertà assoluta si è al momento arrivati a una risposta chiara, sulla povertà relativa il dibattito rimane aperto. Intanto la strada del Rei è aperta varrebbe la pena percorrerla per qualche anno. È una misura per i più deboli, ma non è uno strumento debole.