Dare un nome ai morti: fondamentale per i vivi
Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla vita cristiana
Cristina Cattaneo e il suo impegno per i naufraghi senza volto
“Nel barcone affondato c’erano quasi mille cadaveri. Mi sono calata con i Vigili del Fuoco in fondo al mare ed è stata un’esperienza terribile anche per me che alla morte sono abituata. Non è stato semplice farsi largo in mezzo a strati di cadaveri messi uno sopra l’altro, rannicchiati, in posizione fetale, abbracciati. Abbiamo trovato la tessera di una biblioteca, il cartellino di un ragazzo per donare il sangue, cellulari, fotografie di persone care, schede telefoniche e tanti altri oggetti di vita che raccontano che i migranti non sono un numero e le loro esistenze somigliano a quelle nostre e dei nostri figli”.
Così Cristina Cattaneo ad un recente incontro di Molte Fedi. Un dialogo, tra i più significativi dell’edizione 2020, che ha messo in evidenza l’impegno straordinario di una donna che, oltre al normale lavoro di anatomopatologa e di docente universitaria, ha deciso di lavorare sul riconoscimento dei cadaveri dei migranti, “naufraghi senza volto”.
Ce lo dimentichiamo troppo spesso: negli ultimi quindici anni nel Mar Mediterraneo sono morte oltre trentamila persone. Più della metà di loro resta ancora senza un nome. Cristina Cattaneo e i suoi colleghi si battono per il loro diritto all’identificazione, consci del fatto che tutti i morti meritano la stessa dignità. E che identificare i morti è fondamentale per i vivi. Pensate alla salute mentale di una madre che non sa se il figlio è vivo o morto. O agli orfani che, senza un certificato di morte del papà o della mamma, non riescono a ricongiungersi coi loro cari in Europa.
La pagella cucita nella giacca
Dare nome e volto, perché dietro ogni storia ci stanno biografie, dietro ogni numero ci stanno persone in carne ed ossa. Uomini e donne, vecchi e ragazzi. Ragazzi come quello, ritrovato annegato in mare, che, nella giacca, custodiva gelosamente la sua pagella. Era nascosta dove si tengono le cose più care, ripiegata con cura e cucita: una pagella, con i voti delle materie scritte in arabo e francese. Un bulletin scolaire, pieno di voti, molto belli, che racconta il sogno e il dramma di un ragazzo, non ancora riconosciuto, partito dal Mali, finito in Libia, salito su un barcone troppo affollato.
“Ho perso il mio bambino”
Proprio nei giorni dell’incontro a Molte Fedi, Open Arms, l’associazione umanitaria spagnola che si batte per proteggere in mare le persone che fuggono da conflitti bellici, persecuzioni o situazioni di povertà e cercano di raggiungere l’Europa, ha mostrato un video che ha fatto il giro del mondo. E’ il grido di una madre disperata che sul gommone dove è stata tratta in salvo urla: “I loose my baby, I loose my baby”, “Ho perso mio figlio, ho perso mio figlio”. “Where is my baby?” “Dove è il mio bambino?”. Youssef, il bambino di sei mesi, ritrovato poco dopo il soccorso è morto assiderato alcune ore più tardi mentre si attendeva un mezzo della guardia costiera che potesse trasferirlo in ospedale.
Youssef e la mamma erano partiti dalla Guinea e con centinaia di altre persone sono naufragati in quel “cimitero senza lapidi” che è il mar Mediterraneo. Solo una nave della società civile libera e una sola motovedetta della capitaneria di porto di Lampedusa, a cui si è aggiunta poi un elicottero, si sono rese disponibili per intervenire.
“Ci vediamo in cielo dove saremo bambini per sempre”
Youssef è stato sepolto nel cimitero dei migranti di Lampedusa. “Davanti a una tragedia di simili proporzioni, dinanzi a un bimbo morto non ci sono parole. E’ un Paese senza dignità quello in cui si fanno morire in mare le persone.
E non mi riferisco solo all’Italia, ma all’Europa intera, che non può continuare a fare finta di nulla” ha detto Totò Martello, sindaco di Lampedusa. Mentre il parroco dell’isola, don Carmelo Magra, in un post su Facebook ha scritto:
Caro Youssef, nei tuoi sei mesi di vita, niente avesti da bambino,
né una culla, nè giochi, nè serenità o pace.
Ora da bambino non hai nemmeno la bara.
Sei mesi e mai hai potuto essere bambino,
come la tua mamma giovanissima e già al colmo del dolore.
Noi oggi e sempre, qui, siamo la tua famiglia.
Ci vediamo in cielo dove saremo bambini per sempre.