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Dopo la strage. Come ricostruire il futuro delle Rsa

Proseguono le riflessioni e intorno allo smart report curato da Gianluca Budano e David Recchia, in occasione della 70esima Giornata Mondiale della Salute, una ricerca inedita di analisi sugli effetti della pandemia Covid-19 sulle politiche italiane della salute e di welfare. Questa settimana vi proponiamo le riflessioni contenute in un articolo di Sergio Pasquinelli per welforum.it, un Osservatorio nazionale delle politiche sociali a cui collaborano anche le Acli.

 

 

Dopo la strage. Come ricostruire il futuro delle Rsa

Sergio Pasquinelli

 

L’ultima volta che l’ho vista era seduta lì, con le sue amiche, nella saletta con la televisione sempre accesa che nessuno guardava, sorridente come al solito. Stava per arrivare il pranzo: un saluto fugace. Mai mi sarei immaginato che sarebbe stato l’ultimo. Se ne è andata da sola, lontana dai suoi figli, assistita da persone con cui non sono più riuscito a parlare. E come lei, migliaia di altri. La conta è quotidiana. Una tragedia immane, dalle proporzioni inimmaginabili fino a poche settimane fa. Dovuta a una somma di errori imperdonabili, su una base diffusa di impreparazione.

 

Non solo in Italia

L’ International Long term care policy network, una rete di ricercatori promossa dalla London School of Economics  sta monitorando il fenomeno dei decessi riferibili a Covid nella case di riposo a livello internazionale. Operazione non semplice: le differenze nella disponibilità dei test e nei diversi approcci alla registrazione dei decessi rendono difficili i confronti. Inoltre, si tratta di dati in continuo aggiornamento, che diventano rapidamente obsoleti.

Mentre per Portogallo e Spagna ci sono solo informazioni riportate dai media, secondo cui i decessi riferibili a Covid sono finora rispettivamente del 33% e del 53% dei decessi totali, dati ufficiali sono invece disponibili per il Belgio, il Canada, la Francia, l’Irlanda e la Norvegia: in questi paesi i decessi riferibili a Covid oscillano tra il 49% e il 64%: si veda qui per approfondimenti. Grandezze vicine a quelle del nostro paese.

 

Lo strazio della conta, gli errori, le prospettive

Veniamo all’Italia. L’Istituto Superiore di Sanità ha meritevolmente avviato una indagine sulle Rsa e i dati che riporta sono laceranti: sono quasi settemila i deceduti per Covid o con sintomi simil-influenzali dall’inizio della pandemia fino alla metà di aprile, il 40% del totale. E ci si riferisce solo a un terzo delle strutture presenti in Italia (sono più di quattromila), quindi la cifra va moltiplicata per tre. Un’ecatombe, lungi dall’essersi conclusa.

L’indagine dell’ISS ha chiesto inoltre alle residenze quali fossero le criticità incontrate. Per quanto riguarda le modalità di isolamento adottate nei confronti dei contagiati solo il 47% delle strutture dichiara di avere utilizzato camere singole, il 31% camere con raggruppamento di pazienti solo Covid, nel 5,9% si è optato per trasferimenti in ospedali e l’8,4% ha dichiarato di non avere potuto procedere ad un isolamento.

Su quanto è successo nelle Rsa, le omissioni, gli errori, si sono aperte inchieste giudiziarie che ci auguriamo facciano rapidamente chiarezza. Colpisce il rimpallo di responsabilità tra enti gestori, rapidamente diventati “capro espiatorio”, Asl e Regioni. Con un Ministero della Salute intervenuto tardivamente sull’emergenza: solo il 3 aprile pubblica la circolare con la quale si raccomanda l’effettuazione di tamponi su tutti gli ospiti e gli operatori delle residenze, mentre sono del 18 aprile le indicazioni per la prevenzione dell’infezione nelle strutture residenziali. Parlare di prevenzione quando i deceduti accertati erano già settemila e quelli stimabili il triplo è stato un atto fuori tempo, nei confronti di una realtà in cui si fa ancora fatica a trovare DPI e tamponi in numero sufficiente, a isolare i contagiati, a gestire i reparti sotto una pressione inaudita e con molto personale in malattia. Un Ministero meno impegnato a pubblicare documenti e più occupato a organizzare screening estesi e test su larga scala ci aiuterebbe ad affrontare la fase 2 con meno preoccupazioni.

Le Rsa pagano il prezzo di una emergenza non gestita a livello territoriale, in particolare in Lombardia, dove la medicina di territorio è stata semplicemente ignorata e lasciata a se stessa e dove l’unica attenzione è stata rivolta agli ospedali, considerando le residenze una loro propaggine. Ma le Rsa pagano anche il prezzo di un più generale disallineamento tra sistemi di finanziamento, caratteristiche della domanda e qualità delle cure. Temi analizzati per anni nei rapporti del Network Non Autosufficienza (è in preparazione l’ottava edizione) e, recentemente, da Costanzo Ranci e Marco Arlotti.

La demografia, il calo lento ma inesorabile dei caregiver familiari  e la marginalità degli aiuti domiciliari pubblici terranno alta la domanda di residenze, benché condizionata dalla loro diversa distribuzione: si va da 4,1 posti letto ogni 100 anziani residenti in Piemonte fino ai 0,7 posti della Campania. E rimane la sotto-dotazione complessiva rispetto ad altri Paesi: i posti disponibili in Italia sono 290.000, contro i 370.000 della Spagna, i 720.000 della Francia, gli 870.000 della Germania.

La reputazione delle Rsa dopo questo disastro sarà inesorabilmente segnata, spingendo sempre più le famiglie a rivolgersi ad esse solo come una opzione limite, di ultima istanza, accelerandone la trasformazione verso grandi hospice. Peraltro, una tendenza già in atto. Per non finire così le Rsa dovranno ripensarsi, per riguadagnarsi credibilità e adattarsi a bisogni che saranno cambiati. Indico tre piste di lavoro attraverso cui questo potrà avvenire: le Rsa come agenti del territorio; una residenzialità diversa dalle grandi strutture; le nuove competenze necessarie.

 

Le Rsa come agenti del territorio

Inviare, come è successo in Lombardia, pazienti Covid in convalescenza presso le Rsa, al di là degli effetti che saranno accertati, ha significato trattare queste strutture come dépendance degli ospedali e non, viceversa, come presidi sul territorio, che proprio sul territorio avrebbero potuto rafforzare interventi di prossimità. In questo senso è stata tradita quella spinta verso le “Rsa aperte” adottata dalla Lombardia e da altre regioni come il Piemonte, per venire incontro alle esigenze di sostegno domiciliare. In questa emergenza, l’apertura praticata è stata solo nei confronti degli ospedali, con conseguenze deleterie.

La difficoltà negli spostamenti che l’epidemia ci impone porterà a rivalutare la vita di quartiere, le relazioni di prossimità. La Rsa del futuro ha l’occasione allora di diventare un luogo davvero aperto, amico del territorio, capace di innescare una osmosi con i suoi abitanti, attraverso un insieme di proposte da progettare insieme alla comunità locale: aiuti domiciliari, di varia tipologia e intensità, centri diurni, sostegni ai familiari, supporti al lavoro privato di cura, quello svolto dalle badanti, proposte per l’invecchiamento attivo. Ma anche semplici azioni di informazione, orientamento e counseling, oggi ancora molto sporadiche. Finora tutti questi interventi sono stati considerati con simpatia dagli enti gestori, dai cosiddetti provider, ma non sono mai diventati oggetto di reale investimento, per un motivo fondamentale: sono poco remunerativi.

Qui sta il nodo: occorre cambiare radicalmente un sistema di finanziamento ingessato e vecchio di oltre vent’anni, che per remunerare pazienti sempre più gravi ha reso sempre più precaria la qualità delle cure e che ha incentivato poco l’apertura delle residenze verso il contesto che le circonda.

 

Strutture più piccole, più aperte

Mediamente, tra il 10 e il 20 per cento degli anziani ospiti delle Rsa sono “ricoveri impropri”, perché riguardano persone con necessità di un’assistenza meno intensa di quella offerta da queste strutture, con problemi moderati di autonomia. Non tutti questi soggetti potrebbero essere adatti a soluzioni alternative alle RSA, ma la maggioranza sì.

Le comunità residenziali, le abitazioni protette, le forme di “abitare leggero” non superano solitamente i 25-30 posti. Offrono un sostegno prevalentemente, ma non esclusivamente, di tipo sociale, sulle 24 ore, orientato a favorire l’autonomia, con l’obiettivo di “restituire la persona alla comunità”. A fianco di queste ci sono anche le esperienze di housing sociale e mini alloggi, ossia piccoli appartamenti per una o due persone, contigui, dove l’anziano gestisce in autonomia la sua quotidianità condividendo però una serie di servizi (come le pulizie, la lavanderia, talvolta una mensa, interventi di assistenza alla persona e così via).

L’ampliamento di queste soluzioni alternative genera benefici? Sì, perché rappresentano una soluzione win-win: positiva per anziani meno reclusi in grandi strutture poco flessibili, e meno costose e complesse da gestire rispetto alle Rsa.

Le forme abitative leggere disegnano uno spazio nuovo, che attira meno i grandi gruppi privati profit propagatisi sul modello tradizionale di ricovero. Uno spazio rilevante invece per l’economia e il terzo settore, che possono giocarsi qui immaginazione e innovazione organizzativa, coniugando (e rivalutando) le dimensioni della solidarietà con quelle del mutualismo.

In termini di governance, la diversificazione nella tipologia di offerta residenziale impone un serio governo della domanda, cioè una regia (super partes, pubblica) capace di valutare attentamente i singoli casi e di indirizzarli verso la soluzione più coerente. Ciò richiede una infrastruttura professionale e organizzativa – presente solo in alcuni contesti regionali – necessaria per configurare una rete meno monoliticamente centrata sul “modello Rsa”.

 

Rinnovate competenze professionali

Le professioni che operano nelle Rsa sono da molto tempo aggrappate a profili rimasti sempre uguali. La residenzialità, leggera o pesante che sia, avrà bisogno di nuove competenze. Penso a due ambiti in modo particolare.

Il primo è quello legato alla crescita esponenziale delle patologie di tipo cognitivo, Alzheimer, demenze. È ancora limitata la capacità di trattare in modo adeguato questo tipo di patologie, al plurale perché si tratta di molte e variabili condizioni. Non c’è solo bisogno di medici super specialisti o di nuovi nuclei Alzheimer dentro le residenze: le residenze di domani dovranno investire molto sulla formazione degli Oss, figura nevralgica, e rendersi versatile – per esempio – come supporto ai familiari nella gestione dei segnali precoci, l’intercettazione della malattia nei suoi esordi, quando le famiglie si trovano molto disorientate e molto sole.

In secondo luogo gli operatori di domani dovranno avere dimestichezza nell’uso delle nuove tecnologie e della tecnoassistenza. Penso alla teleassistenza, di seconda e terza generazione (sensori di localizzazione, App dedicate, supporti web), tecnologie assistive in “residenze intelligenti”, trasporti smart, teleriabilitazione. Le residenze del futuro dovranno dotarsi di queste attrezzature, e di personale in grado di gestirle. Ben sapendo che non sostituiranno mai una relazione in presenza, ma la potranno efficacemente coadiuvare.

 

 

Nelle scorse settimane abbiamo pubblicato l’intervista al Presidente nazionale Anffas, Roberto Speziale, il contributo del ricercatore Valentino Santoni di Secondo Welfare, l’articolo di Ubaldo Pagano,  l’approfondimento del Prof. Vincenzo Frusciante,  la riflessione dell’on. Paolo Siani,  l’intervista al Prof. Saverio Cinieri, l’editoriale di Francesco Strippoli e l’intervista a Filippo Anelli

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