Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana
È una delle voci più lucide di Terra Santa. Autore di testi pubblicati in Italia da Ziqqaron, la casa editrice della dossettiana Piccola Famiglia dell’Annunziata, padre David Neuhaus è oggi superiore della Comunità gesuita in Terra Santa e docente di Scrittura presso il Seminario Patriarcale Latino di Beit Jala. Negli ultimi vent’anni ha tenuto corsi sull’ebraismo in arabo presso il seminario, l’Università di Betlemme e in altre istituzioni accademiche in Palestina e nel mondo arabo. Fino al settembre 2017 è stato Vicario patriarcale latino per i cattolici di lingua ebraica in Israele e Coordinatore della Pastorale per i lavoratori migranti e i richiedenti asilo.
Durante il mio recente viaggio in Terra Santa ho avuto modo di incontrarlo. Questo è il resoconto di una parte del dialogo. Una biografia straordinaria che incrocia, in modo fecondo, i tre monoteismi.
La sua è una storia singolare. La può raccontare?
Mi chiamo David Neuhaus. Il mio è un nome tedesco. I miei genitori erano ebrei tedeschi fuggiti dalla Germania negli anni trenta e trovarono asilo in Sudafrica dove sono nato nel 1962. Dunque, la mia è una famiglia di profughi ebrei tedeschi fuggiti a causa della persecuzione nazista. Papà e mamma provenivano da due mondi molto diversi che hanno convissuto fino alla morte del babbo avvenuta tre anni fa. Il papà aveva avuto una educazione religiosa ed era abbastanza praticante, la mamma no. All’inizio del loro matrimonio decisero di lasciare fuori la questione religiosa dalle vicende di casa ma di garantire un’istruzione ebraica ai loro figli. Io ero abbastanza ribelle e frequentavo una scuola privata ebraica dove imparai l’ebraico moderno. A tredici anni celebrai il mio Bar-Mitzva e quando compii quindici anni – era il 1977 – decisero di mandarmi, con altri compagni di scuola, in Israele. Peraltro, il Sudafrica allora era segnato dall’apartheid: i miei genitori avevano un alto senso della giustizia e si opponevano alla discriminazione razziale. Venni in Israele senza nessuna fede, con una pratica obbligata dalla scuola che ci imponeva di andare in sinagoga con il tallit e i tefellin.
Cosa successe?
Il cristianesimo non mi interessava. Ero però molto appassionato di storia russa, in particolare della famiglia dei Romanov. Era incuriosito dalla vicenda della sorella dell’ultima imperatrice di Russia, Elisabetta Fedorovna. Una donna canonizzata dalla Chiesa ortodossa che ebbe una vita drammatica ed ora sepolta a Gerusalemme. Venni a sapere che sul Monte degli Ulivi stava una sua lontana parente, badessa in un monastero. Un sabato pomeriggio, dopo il pranzo tenuto al termine della preghiera in sinagoga, scappai dal collegio per poterla incontrare ma la monaca era in coma. Una suora che la vegliava mi disse che c’era un’altra suora, al convento di Santa Maria Maddalena, che aveva conosciuto la donna che mi interessava. Andai subito a cercarla e fui presentato a suor Barbara, una religiosa ortodossa russa di 89 anni, paralizzata totalmente, per un problema neurologico, da una ventina di anni. Mi parlò tre ore e mezzo di Elisabetta Fedorovna, della famiglia Romanov, della vita nell’Impero Russo… Ero in estasi, come in un sogno. Dopo averla ringraziata sono tornato indietro. Mentre tornavo alla mia scuola, misi a fuoco quello che avrebbe cambiato poi la mia vita. Avevo incontrato la persona più felice di tutta la mia vita, e intanto mi dicevo che tutto ciò era ridicolo e impossibile: a 89 anni, una suora, paralizzata…Proprio non era possibile! Quindi ho aspettato il sabato seguente: ancora una volta sono fuggito dal Collegio, sono andato subito da madre Barbara – questo era il nome della badessa – e le ho detto: “Madre, io non sono qui per parlare dei Romanov né di santa Elisabetta, nè della Russia. Le voglio fare solo una domanda: “Perché mai è così felice?”. Mi ha guardato imbarazzata, perché sapeva che io ero un ragazzo ebreo e non sapeva cosa dire. Ho insistito: “Lo voglio sapere!”. Finalmente, un po’ esasperata, mi ha risposto: “Va bene, ti risponderò. Sono innamorata!”. Tra me e me dissi che era matta e questo avrebbe spiegato tutto. Insistetti: “Cosa vuol dire innamorata?”. Allora lei, ancora una volta molto esitante, mi ha detto. “C’è un uomo che si chiamava Gesù” e molto lentamente nel rispetto della mia identità ebraica ha cominciato a parlarmi di Lui. Io sapevo qualcosa, non ero totalmente ignorante ma ho lasciato la camera, dopo un incontro durato ancora alcune ore, totalmente convinto che Gesù è Dio, figlio di Dio, Messia. Oggi sono gesuita e io non ho avuto visioni o rivelazioni divine ma ho visto una donna che mi diede una testimonianza che non potevo negare. Sono tornato alla scuola, credente non soltanto in Dio ma anche in Gesù. E alla fine dell’anno scolastico, dovetti tornare in Sudafrica per incontrare i miei genitori.
Lei allora aveva solo quindici anni. Come reagirono?
Dissi loro che c’era qualcosa di nuovo nella mia vita. “A Gerusalemme sono andato da ateo, ebreo, orgoglioso di esserlo. Ora so che Dio c’è e ha un figlio che si chiama Gesù”. I miei genitori mi hanno guardato scioccati e la reazione della mamma è stata: “Come puoi unirti a costoro dopo tutto quello che ci hanno fatto?”. Una risposta molto ebraica. I miei genitori non distinguevano fra cristiani, nazisti, antisemiti. Per loro era un blocco unico. Io rimasi interdetto perché non avevo parlato loro dei cristiani ma di Gesù. Promisi loro che per dieci anni non avrei fatto niente e solo a venticinque anni avrei potuto diventare cristiano. In quel caso, disse loro che avrebbero dovuto accettare la mia scelta. I miei mi guardarono, si sorrisero a vicenda e risposero: “Va bene, siamo d’accordo”. Certamente pensavano che il giorno seguente mi sarei fatto buddista o musulmano o qualcosa d’altro ancora. Fu così che risolvemmo la difficoltà. Dieci anni più tardi tornai da loro dicendo che avrei ricevuto il battesimo.
Dopo l’annuncio scioccante ai genitori, lei ritornò a Gerusalemme.
Si, e in quell’occasione incontrai il mio primo amico, un palestinese mussulmano di nome Osama. Oggi è il Direttore di una Scuola, allora lo incontrai nel convento delle suore dove suo papà per sessantatre anni è stato il factotum. Osama, che aveva due anni più di me, diventò il mio miglior amico e dopo alcune settimane mi ha detto: “David, dove è la tua famiglia?” Gli risposi che non avevo famiglia a Gerusalemme perché viveva in Sudafrica. “Non è possibile vivere senza famiglia”, mi disse. “Vieni con me”. E mi ha portato alla sua famiglia che viveva sul Monte degli Ulivi. Mi ha presentato davanti ad un uomo e ad una donna, chiaramente il suo papà e la sua mamma, e mi ha detto: “Vedi, questi sono i tuoi genitori”. Subito mi abbracciarono e la famiglia mussulmana divenne la mia famiglia. Fui così inserito in un ambiente arabo di ferventi musulmani. La mamma di Osama non conosceva un’altra lingua: la situazione mi diede il primo impulso e mi spinse a studiare l’arabo. Specialmente nella cucina della mia nuova “mamma”. Così nella vita ho avuto il dono di una comunità cristiana, il regalo di una famiglia mussulmana, senza negare la mia famiglia ebraica d’origine. Con Osama frequentavamo un gruppo di dialogo interreligioso e lì per la prima volta ebbi modo di incontrare un prete cattolico, un gesuita. Ebbi modo di parlare molte volte con lui. Un giorno gli dissi: “Ho una grande domanda da farti. Come mai un ebreo può diventare cristiano dopo tutto ciò che i cristiani hanno fatto contro gli ebrei?” Io allora non ero battezzato. Mi diede una risposta che mi piacque tantissimo. “David, tu hai una domanda. Io ho un centinaio di domande e non ho nessuna risposta a nessuna domanda.” Pensai allora che mi sarebbe piaciuto diventare gesuita…Dopo dieci anni, confermai ai miei genitori la scelta di voler essere battezzato. Durante quel tempo conobbi la comunità cattolica di lingua ebraica nella società israeliana. Tra loro vi era un sacerdote, gesuita anch’egli, a cui chiesi il battesimo Lui mi rispose di non aver fretta: “Discernimento!”. Durante i due anni di preparazione, maturai la convinzione di fare qualunque servizio in Israele ma non quello militare. Per questo, ho passato due mesi in prigione: un’esperienza meravigliosa che mi ha confermato nella scelta. Sei mesi dopo ricevetti il battesimo. Il giorno dopo andai da padre Josè, il gesuita nicaraguense che mi aveva battezzato, per dirgli: “Voglio diventare gesuita”. Lui mi ha guardato e ha detto: “Perché vai sempre di fretta? Noi non accettiamo i neofiti. Devi aspettare tre anni”. Nel frattempo, ho conseguito un dottorato in Scienze Politiche all’Università ebraica di Gerusalemme. Poi, finalmente, fui ammesso come postulante nella Compagnia di Gesù.
E anche qui si apre un’altra storia.
Ha ragione. Volevo rimanere qui, in questa Chiesa. Quando ho fatto la mia domanda, il Provinciale, un egiziano molto saggio che viveva a Beirut, mi disse: “David, noi non possiamo accoglierti in questa provincia. Siamo egiziani, siriani, libanesi e tu sei ebreo israeliano. C’è una guerra in corso, come possiamo accoglierti tra di noi?”. Nonostante la mia delusione ero d’accordo con lui, si trattava di una decisone logica. Mi disse: “Vai nella provincia della New England-Boston, loro hanno un collegamento con la Terra Santa. Tutto ciò mi scombussolò parecchio ma presi contatto con la provincia New England, che mi accettò. Al momento della partenza il provinciale per il Medio Oriente mi disse: “Dobbiamo essere profetici. Il tuo posto è con noi. Parti per il New England, fai un po’ di esperienza e poi torna”. Fu così che nel secondo anno di noviziato andai in Egitto, fu un periodo meraviglioso col maestro dei novizi, che divenne in seguito provinciale per il Medio Oriente. Eravamo quattro novizi, io, ebreo israeliano, due egiziani e un siriano. I miei tre compagni si sono poi sposati e vivono in Francia. Io sono il solo rimasto nella Compagnia di Gesù. Ma veramente, questa esperienza di vivere ed essere pienamente integrato nella Chiesa locale, la Chiesa locale arabofona, mantenendo la mia identità ebraica, è stata davvero incredibile.
La sua è una storia particolarissima. Come vive questi mondi e queste fedi che lo hanno attraversato?
Come una grazia. Una grazia meravigliosa. Soprattutto perché penso che non la vivo da solo. È tutta la Chiesa che è chiamata viverla. Noi cristiani non dobbiamo stare in mezzo ma nel cuore stesso di queste due società che si lacerano a vicenda: la società israeliana e quella palestinese. È una grazia speciale concessa alla Chiesa di Terra Santa, profondamente radicata in queste due realtà. Il nostro posto non è nel mezzo, il nostro posto è quello di essere il lievito e il seme e qui vedo la Chiesa profondamente radicata da secoli, fin dall’inizio. I primi arabi credenti in Cristo sono citati negli Atti degli Apostoli, nel racconto della discesa dello Spirito Santo, e quindi possiamo dire che la Chiesa araba ha duemila anni esattamente come la Chiesa ebraica. Se guardiamo al nostro tempo, vediamo che Dio, con il suo abituale senso dell’umorismo, ha radicato profondamente la Chiesa nelle due società rivali, e questo ci rende testimoni di una realtà. La realtà è che siamo una Chiesa sola, il che è del tutto estraneo al mondo in cui viviamo.