Il contributo delle famiglie e l’affermazione del privato
Se la spesa sanitaria pubblica assorbe il 7% del Pil nel 2012, le famiglie contribuiscono alla spesa sanitaria totale per il 20,6%. Il livello di compartecipazione dei cittadini ai ticket fra 2013 e 2014 è diminuito solo in tre regioni e nella provincia autonoma di Trento; altrove, come in Valle d’Aosta, gli aumenti sono stati sensibili: +11,9%.
Le risorse, d’altronde, sono allocate in modo assai differente: la spesa sanitaria pubblica pro capite, nel 2013, assume valori massimi nella provincia di Trento (€ 2.315,27) e Bolzano (2.308,21) o in Valle d’Aosta (€ 2.393,03), mentre presenta valori minimi in Campania (€ 1.776,85). Ovviamente, nelle Regioni in piano di rientro si registrano livelli di tassazione più elevati.
Gli squilibri allocativi, la contrazione della spesa e le conseguenti difficoltà a garantire i livelli essenziali di assistenza (Lea) si traducono in un aumento della spesa a carico delle famiglie. Per quanto riguarda i ticket, ogni anno i cittadini a testa pagano in media oltre 50 euro come quota di compartecipazione in tutte le regioni, con punte minime di 42 euro al Sud e punte massime di 60 euro al Centro-Nord. I ticket nel pubblico più bassi sono a Nord-Est, i più alti a Sud. Secondo le rilevazioni dell’Istat, nel 2013 la spesa effettiva familiare per beni e servizi sanitari (ricoveri, visite mediche, analisi cliniche, esami radiologici, medicinali, ecc.) è stata nel complesso di € 1.272, nel 2014 di € 1.384. Nel 2015 la spesa sanitaria out of pocket dei cittadini italiani è stata in totale di 33 miliardi di euro (€ 500 circa pro capite all’anno), con un incremento di 1 miliardo rispetto al 2014. Sempre più spesso gli italiani richiedono un prestito per far fronte alle spese mediche.
Per il contenimento della spesa e il rientro del debito gli strumenti principali cui le Regioni ricorrono sono l’introduzione dei ticket e di quote di compartecipazione alla spesa a carico dei cittadini. Ma questo può far ulteriormente rinunciare alle prestazioni sanitarie, con grave rischio per le condizioni di salute della popolazione.
Chi trae vantaggio in questa situazione è il settore della sanità privata. La spesa sostenuta privatamente dai cittadini per prestazioni sanitarie in Italia è al di sopra della media Ocse (3,2% contro 2,8%). In Italia, specie nel Sud e in particolare in Puglia e Campania, i cittadini ricorrono più di frequente agli specialisti privati per aggirare il problema dei tempi troppo lunghi nel pubblico.
Godono, infatti, di ottima salute le holding che gestiscono i colossi della sanità privata nel nostro Paese, che realizzano ampi profitti sempre più concentrati nella mani di pochi e di quel sottobosco di personaggi variamente collegati al potere politico, tra i quali scorrono fiumi di tangenti, come ha mostrato il recente caso lombardo.
Secondo i dati Istat, mentre la spesa sanitaria corrente nel settore pubblico è progressivamente diminuita nel periodo di crisi per stabilizzarsi sostanzialmente negli ultimi anni, la spesa nel settore privato è cresciuta fino ai 33 miliardi di euro del 2014. I primi 10 gruppi ospedalieri privati italiani tra il 2010 e il 2014 hanno avuto un fatturato di circa 3,9 miliardi di euro e un totale attivo complessivo di 4,9 miliardi. Considerando solo i 5 maggiori gruppi, il fatturato medio per posto letto, calcolato sui soli ricavi per prestazioni ospedaliere, è in media di 186mila euro. I posti letto in questi cinque gruppi sono 10.144 in totale e i dipendenti sono 18.867 (quasi 29.000 per tutti e dieci i gruppi), il 73% dei quali è personale sanitario.
Quale sanità vogliamo, di quale sanità abbiamo bisogno
Le politiche di contenimento della spesa sanitaria hanno determinato una situazione grave e, per certi versi paradossale, tale per cui, come hanno denunciato i sindacati, se oggi subissimo un attacco terroristico come quelli di Parigi o Bruxelles, la nostra sanità non riuscirebbe a farsi carico di tutti i feriti. La sopravvivenza della sanità pubblica non è più scontata perché il continuo taglio ai finanziamenti comporta una riduzione della quantità e qualità delle prestazioni erogate.
In questo senso, il fenomeno del maggior numero di decessi dal quale si è partiti nell’articolo precedente, secondo alcuni, ricorda tristemente l’aumento della mortalità nei Paesi dell’Est Europa nella fase di passaggio dal comunismo all’economia di mercato. Il controllo rigido della spesa sanitaria, specie in periodi di recessione economica, può avere effetti gravi sulla popolazione. Ma anche in tempi più recenti l’esempio della Grecia è lampante: in una serie di articoli pubblicati nel 2014, ricercatori di sociologia ed epidemiologia delle Università di Oxford, Cambridge, Londra e Atene hanno reso noti gli effetti del taglio delle risorse, dovuto alla crisi economica, sullo stato di salute della popolazione della Grecia. I risultati sono drammatici: la mortalità generale annuale è aumentata nettamente nel periodo che va da prima della crisi (2008) al 2012, raggiungendo il numero di decessi più alto dal 1949. A morire sono stati soprattutto gli anziani, con un incremento del 12,4% nella fascia di età 80-84 anni e del 24,3% negli over 85.
È legittima la preoccupazione di avere lo stesso destino, dal momento che specialmente il nostro Centro-Sud sta sperimentando da alcuni anni sulla propria pelle, con le politiche dei piani di rientro, l’effetto di questo tipo di tagli. Con l’eccezione della Basilicata, le amministrazioni regionali centrali e meridionali, sotto le imposizioni del Ministero dell’economia e delle finanze, hanno messo in campo riduzioni importanti e lineari della spesa sanitaria.
Il restringimento del perimetro dei diritti in campo sanitario e l’incremento del disagio sociale potrebbero avere un effetto esplosivo, anche per la tenuta della coesione sociale e della democrazia.
I tagli dovuti all’austerità mettono il sistema sanitario sotto pressione, aumentando le disuguaglianze e minacciandone la sostenibilità futura in mancanza di investimenti nella tutela della salute e nella prevenzione delle malattie che garantiscano l’accesso universale a servizi sanitari di elevata qualità. In sostanza, è in pericolo la sostenibilità del sistema, messa a rischio anche dalle inefficienze organizzative e gestionali, dalla promiscuità tra la gestione del consenso politico e quella della qualità professionale, dai diffusi fenomeni corruttivi.
Secondo un recente studio condotto da Transparency International Italia, Censis, Ispe Sanità e RiSSC, è emerso che tra corruzione e frodi almeno 6 miliardi di euro all’anno vanno in fumo, più del 5% della spesa sanitaria pubblica. Tra gennaio 2014 e giugno 2015 la Guardia di Finanza ha stimato un danno erariale in sanità per 806 milioni di euro, pari al 14% del danno erariale complessivo. Dieci milioni sono gli italiani che non ricevono ricevuta fiscale per le prestazioni mediche, che, dunque, pagano in nero; due milioni sono, invece, quelli che dichiarano di aver pagato per ricevere un favore in ambito sanitario negli ultimi 12 mesi. Sono dati che ci collocano agli ultimi posti delle classifiche europee sulla trasparenza/corruzione.
Se questa è la natura e la dimensione dei problemi, ben altre misure sarebbero necessarie, cominciando col destinare le risorse recuperate al sistema stesso per finanziare innovazione e riorganizzazione, capaci di far mantenere e migliorare gli esiti ancora buoni garantiti dalle strutture ospedaliere e sanitarie in Italia.
(Leggi la prima parte di “Curare” la sanità: una necessità per la nostra sopravvivenza)