Il preoccupante aumento della mortalità
Ragionare intorno ai dati demografici che riguardano un Paese è, oltre che necessario per i decisori pubblici, spesso sorprendente anche per gli osservatori. A leggere i dati recenti, infatti, si scopre che al primo gennaio 2016 la popolazione italiana risulta in decrescita di 139.000 unità, perdita che nemmeno la presenza di immigrati riesce a compensare, smentendo le voci strumentali di una supposta invasione. L’Istat, inoltre, informa che nel 2015 i morti sono stati 653 mila, 54 mila in più: un incremento del 9,1% rispetto al 2014 che porta il tasso di mortalità al 10,7 per mille, il più alto mai registrato dal secondo dopoguerra in poi. In altre parole è almeno dal 1943, quando l’Italia era nel pieno del periodo bellico, che non si verificava una situazione così sfavorevole. La geografia dei decessi indica che nei primi mesi dell’anno sono morti più maschi al Centro Nord e più femmine al Sud; nel periodo estivo, invece, sono state interessate tutte le provincie con più morti femminili.
Anche in altri Paesi dell’Europa occidentale si è registrato un picco di decessi nello stesso periodo, con valori per gli indici calcolati che non si registravano almeno dal 1999/2000. Specialmente nella vicina Francia l’aspettativa di vita alla nascita nel 2015 è scesa di 0,3 anni per le donne e di 0,4 per gli uomini, un evento che non si registrava dal lontano 1969. A dimostrazione che il fenomeno non è casuale.
L’aumento di mortalità si è verificato prevalentemente nelle classi di età molto anziane (75-95 anni). Ma non è solo questo a impensierire; un altro dato va considerato con estrema attenzione: per la prima volta da molto tempo diminuisce la speranza di vita alla nascita, che per gli uomini si attesta a 80,1 anni (da 80,3 del 2014) e per le donne a 84,7 anni (da 85 anni). Questo valore, sempre crescente da decenni a questa parte, è un indice indiretto della qualità della vita (e della vita matura), ed è quindi una sorta di campanello di allarme la sua improvvisa inversione di rotta.
Si aggiunga a questo che, secondo i dati dell’Eurostat, nel periodo 2004-2012 si è abbassata l’età in cui in Italia si inizia a ricorre alle cure mediche per problemi gravi. Se nel 2004 gli uomini si ammalavano in media a 69 anni e le donne a 71, nel 2012 gli uomini si ammalano a neanche 62 e le donne a 61. Tali valori ci collocano al di sotto della media europea, dove nello stesso periodo si sono guadagnati due anni di salute, e la soglia si è alzata da 61 a 63 anni.
La crisi e i tagli alla sanità
Quali sono le cause di questa accresciuta mortalità e, più in generale, del peggioramento delle condizioni di salute e della qualità della vita delle persone mature?
Sono state avanzate diverse ipotesi per dar conto dell’incremento della mortalità. L’aumento dei decessi nel primo trimestre dell’anno potrebbe essere legato all’epidemia influenzale, come avvenuto in altri Paesi europei, ma ciò lascerebbe di difficile interpretazione il picco estivo dei decessi. Gli effetti dell’inquinamento e l’ondata di calore estiva di forte intensità sono state pure addotte come cause possibili.
Sta di fatto che tutte le cause prese in considerazione possono spiegare al massimo una parte di questi decessi, ma un’altra abbondante parte resta senza spiegazione, se non introducendo la variabile della crisi. Anche l’invecchiamento della popolazione, che pure in modo evidente sta rendendo più ampie le coorti anagrafiche più mature (tra i 70 e gli 85 anni), non basta a renderne conto. Anzi, secondo gli studiosi ne spiegano solo una piccola parte: se i rischi di morte fossero rimasti invariati, i decessi sarebbero stati ben inferiori. Del resto, il fatto che l’Italia rimanga comunque un Paese longevo dimostra che non si è di fronte a un mutamento antropologico: il problema è per lo più sociale.
In altri termini: il sistema socio-sanitario, che ha consentito benessere e salute ad ampie fasce della popolazione (specie anziana) comincia a risentire di una congiuntura economica sfavorevole. I tagli alla sanità pubblica dovuti alla crisi hanno aumentato il rischio di mortalità tra i cittadini più anziani, gruppi fragili della popolazione. Inoltre, la crisi potrebbe aver influito anche sotto altri profili sullo stato di salute, causando l’impoverimento della dieta e aumentando lo stress dovuto alla precarietà del lavoro e all’instabilità economica. In discussione sono l’efficacia degli interventi di sanità pubblica e la programmazione degli interventi di prevenzione.
Il Rapporto Ocse sulla salute (Health at a glance: Europe 2014) ricorda che tra il 2009 e il 2012 la spesa sanitaria reale è diminuita in metà dei Paesi dell’Unione europea e ha subito un considerevole rallentamento negli altri. La spesa sanitaria si è ridotta in media dello 0,6% ogni anno e in Paesi come Grecia, Portogallo, Italia, Spagna, Repubblica ceca e Ungheria ha continuato a diminuire anche dopo. Da parte sua, la Corte dei Conti, nella recente relazione annuale, ha affermato che i tagli lineari operati sulla spesa pubblica dal governo, uniti a quelli precedenti, hanno compromesso la funzionalità e la fruizione di prestazioni e servizi fondamentali. In particolare, secondo la Corte, ciò è avvenuto nella sanità: nel periodo 2010-2013 i tagli al sistema sanitario ammontano a circa 31 miliardi di euro, tagli proseguiti nel triennio successivo e prospettati anche per il futuro. Ma i tagli alle spese per la sanità o per la scuola non sono indolore come quelli che si possono (e si dovrebbero) fare alle spese militari: espongono al rischio la salute dei cittadini.
Insomma, il ruolo legato all’iniquità nell’accesso alle cure sanitarie e all’inefficienza del sistema sanitario, sottoposto da anni a tagli lineari, non può essere trascurato. Molti sono, infatti, gli effetti negativi prodotti dalla crisi e dalla riduzione della spesa nel settore sanitario.
Un effetto visibile e penoso per molte famiglie e per molti anziani è la perdita dei posti letto nelle strutture ospedaliere. La riduzione dei posti letto per acuti è stata di 13.377 unità tra il 2010 e il 2013. Nel periodo 2009-2015 sono stati circa 25.000 i posti letto tagliati, mentre per regolamento anche i giorni di degenza per acuzie si sono ridotti. Secondo gli ultimi dati Istat, nel 2002 i posti letto in Italia erano 4,3 ogni mille abitanti, nel 2011 erano già 3,4‰; i valori più alti si registrano nella provincia di Trento e in Emilia-Romagna (4,1‰), dove pure c’è stata una riduzione di posti soprattutto tra il 2012 e il 2013; le punte minime si riscontrano in Sicilia (2,9‰) e Campania (2,8‰). La normativa nazionale vorrebbe ovunque un livello al di sotto dei 3,7 posti ogni mille abitanti. L’Italia risulta comunque già al di sotto della media Ocse e ben lontana dagli altri Stati europei: Germania 8,4‰, Francia 6,3‰. Al di là delle regole asettiche, si tratta di manovre che nell’esperienza comune facilmente rischiano di allungare le attese ai Pronto Soccorso e di peggiorare l’assistenza ai cittadini e le condizioni di lavoro di medici e operatori sanitari.
Riguardo al primo aspetto, nei Pronto Soccorso romani, ad esempio, sono stati perduti 2.177 posti letto (sui 3.600 complessivi nella regione), un taglio che equivarrebbe, per intenderci, alla chiusura di due principali nosocomi pubblici della capitale: l’Umberto I e il San Camillo. A mancare sono i posti letto per acuti, la cui riduzione, anziché abbassare i costi, ha finito per farli lievitare. Al San Camillo a causa dei tagli, il costo medio di un ricovero è aumentato del 52%.
Circa il secondo, le condizioni peggiorano perché nello stesso periodo le dotazioni organiche di medici e infermieri si sono ridotte. Secondo gli ultimi dati del conto annuale della Ragioneria di Stato, in cinque anni, dal 2009 al 2014, perfino i primari sono diminuiti del 20%. Finora, infatti, il massimo risparmio è stato fatto bloccando il turn over del personale sanitario, producendo un invecchiamento di quello interno. In tal modo il sovraccarico di lavoro aumenta: un recente studio condotto da Anaao-Assomed, l’Associazione medici e dirigenti del Ssn, mostra che il 46% dei medici italiani segue fino a 22 letti, in barba agli standard ospedalieri stabiliti per legge. Esistono numerosi studi a livello internazionale che hanno dimostrato una relazione tra carichi di lavoro, scarsità di personale e aumentato rischio di mortalità per diversi tipi di patologie nei sistemi sanitari pubblici.
La riduzione dei posti letti aumenta, inoltre, il fenomeno dei cosiddetti ricoveri “in appoggio”: spesso pazienti con determinate patologie non vengono allocati nel reparto idoneo per mancanza di posti letto nel struttura di cura a loro adeguata. Tale problematica è connessa al rischio clinico e quindi intimamente correlata all’aumentata mortalità intraospedaliera. Studi condotti in Italia dimostrano che i pazienti “appoggiati” sono per lo più anziani che presentano più patologie.
Se per i casi acuti le condizioni non sono delle migliori, altrettanto dicasi nei casi restanti. Per motivi economici, liste di attesa e ticket rinuncia alle cure il 9,5% dei residenti, praticamente un italiano su dieci. Nelle Regioni del Sud si riscontra la maggior quota di rinunce: 13,2%. Un cittadino su quattro fra gli oltre 26mila che si sono rivolti al Tribunale per i diritti del malato nel 2015, lamenta difficoltà di accesso alle prestazioni sanitarie per liste di attesa (oltre il 58%) e per ticket (31%). Le liste di attesa, peraltro, non sono le stesse in tutte le aree d’Italia, così come i livelli dei ticket, a segnalare le profonde differenze che caratterizzano il territorio nazionale rispetto ai Livelli essenziali di assistenza (Lea).
Secondo il Censis il 41,7% dei nuclei familiari ha almeno un componente che nell’arco di un anno si è privato di una prestazione sanitaria di cui aveva bisogno, soprattutto per le liste di attesa lunghe del Ssn e i costi proibitivi della sanità privata. In base alle informazioni fornite dal Censis, quasi un quinto degli Italiani rinuncia alle cure mediche specialistiche per motivi economici. La sensazione espressa dai cittadini è che la copertura dello stato sociale si sia ridotta (53,6%). Che le persone non si curano, non fanno controlli e prevenzione ha una ricaduta indiretta nell’aumento dei casi gravi che accedono ai Pronto Soccorso.
In generale peggiora la qualità della vita. Nel già citato Rapporto dell’Ocse si sottolinea come in Italia “l’aspettativa di vita in buona salute per la popolazione sopra i 65 anni” sia una delle più basse tra i Paesi maggiormente industrializzati. Lo stesso Rapporto rivela che l’Italia rimane sotto la media Ocse per quanto concerne gli standard di assistenza al paziente anziano e nella medicina preventiva.
Tali rinunce indicano le difficoltà della Sanità italiana, che fa fatica ad assicurare l’universalismo garantito nella Costituzione. Ciò ricade sui redditi dei cittadini, chiamati sempre di più a compartecipare alle spese. Di conseguenza il nostro sistema sanitario sembra sempre più simile a quello statunitense, dove solo chi ha la disponibilità economica ha il privilegio di potersi curare.