Ciò che è accaduto, può di nuovo accadere. La Shoah. Memoria di Shlomo Venezia

La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, ‘Giorno della Memoria’, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonchè coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.

Così recita l’articolo 1 della legge n.211 del 20 luglio 2000 che istituisce “il Giorno della memoria”. Il 27 gennaio prossimo, per la diciottesima volta, l’Italia ricorderà solennemente lo sterminio e le persecuzioni del popolo ebraico, i deportati militari e politici italiani, e quanti a rischio della propria vita hanno salvato e protetto altre vite. Per non dimenticare e per vigilare. Perché “ciò che è accaduto, può di nuovo accadere. Di nuovo. Dappertutto” (Primo Levi).

Vogliamo ricordare anche noi la giornata della Memoria con la testimonianza di Shlomo Venezia, uno dei sopravvissuti alla Shoah. Nato nel 1923 a Salonicco, Venezia, ebreo italiano, fu arrestato e deportato nel campo di concentramento nazista di Auschwitz-Birkenau nel 1944. Durante la prigionia fu obbligato a lavorare nei Sonderkommando, “unità speciali”, squadre composte da internati  ebrei e destinate alle operazioni di smaltimento e cremazione dei corpi dei deportati uccisi con il gas. Queste squadre venivano periodicamente uccise per mantenere il segreto sullo sterminio. Shlomo  era uno dei pochi sopravvissuti,  l’unico in Italia, quattro nel mondo, di queste squadre speciali e ha raccolto le sue memorie in un libro Sonderkommando Auschwitz, pubblicato da Rizzoli. Ha cominciato a testimoniare ciò che aveva vissuto solo nel 1992, quarantasette anni dopo la liberazione.

È stato lui a raccontarmelo:

Non avevo il coraggio di tornare su questi argomenti. Ma ad un certo punto, di fronte a certi fatti, ho deciso che era necessario. È stato qualche anno fa, quando a Roma hanno imbrattato alcuni negozi ebrei con  le stelle di Davide e sono comparse sui muri scritte come “juden raus”, “ebrei ai forni”. Per qualcuno possono essere ragazzate, cose di poco conto, ma per noi che le abbiamo vissute, vedere di nuovo insorgere queste cose è inaccettabile. È stata la spinta per incominciare…. 

Shlomo, morto il 1 ottobre del 2012,  è stato spesso ospite di Bergamo perché, con il sostegno dell’ANED (Associazione Nazionale Ex-Deportati dai campi nazisti) ha accompagnato migliaia di persone, studenti e adulti,  ad Auschwitz. Questa è un’intervista fatta a Shlomo durante uno dei nostri ultimi viaggi insieme.

 

Che ricordo hai del viaggio verso i campi della morte?

Sono arrivato a Birkenau, il secondo campo di Auschwitz, dopo un viaggio in treno durato dodici giorni. Fummo caricati ad Atene, stipati stretti – donne incinte, bimbi, vecchi – in un vagone bestiame. Ci diedero qualcosa da mangiare per il viaggio e un grosso bidone dove soddisfare i nostri bisogni. Nessuno sapeva dove saremmo andati. Attraversammo mezza Europa: la Grecia, la Jugoslavia, l’Austria, l’Ungheria, la Cecoslovacchia finché non entrammo in Polonia. Pregavamo Dio di farci arrivare, perché, come ci avevano promesso, potevamo così andare a lavorare.  Era il mese di aprile quando arrivammo a Birkenau. Il treno si fermò sulla Judenrampe e mi resi conto che il gradino per scendere era molto alto e mi preoccupai per mia mamma che aveva solo 43 anni, ma volevo comunque aspettarla. Non ci riuscii: fui colpito alle spalle da un SS che aveva con sé un cane che abbaiava furiosamente. Fummo subito divisi: da una parte gli uomini e dall’altra le donne. Da quel momento non ho più visto né la mamma né le mie due sorelline. Rimasero con me solo mio fratello e due miei cugini. Un ufficiale delle SS, in fondo alla fila, con un dito indicava chi doveva andare a sinistra o a destra, ovvero se ti era concesso vivere o se eri condannato, subito, a morire. Con le donne andavano i bambini più piccoli. Quel giorno, avevano bisogno di trecento persone e presero i più giovani, quelli più in gamba. Io ero tra questi e ci mandarono nel campo di Auschwitz.  Gli altri, con mia mamma e le mie sorelle, furono immediatamente gasati.

 

Cosa successe poi?

Per prima cosa, fummo portati alla Sauna e lì disinfettati, rasati a zero e depilati. Rimanemmo completamente nudi e fummo spinti sotto le docce. Ricordo che c’era un giovane SS che muoveva a suo piacimento le manopole dell’acqua, per cui, all’improvviso, passavamo sotto i getti dell’acqua calda, bollente, ai getti di quella gelida. Noi ci spostavamo ma lui veniva vicino e con gli stivaloni ci dava dei calci agli stinchi, così che eravamo costretti ad andare sotto la doccia. Intanto lui rideva e si divertiva: si sentiva padrone di tutti noi. Finita la doccia, ci tatuarono il braccio con il numero di matricola. Il mio l’ho ancora impresso sul braccio sinistro…

Shlomo gira indietro la camicia e mi mostra una serie di numeri tatuati sul braccio:  182727

Da quel momento – riprende a raccontare – non eri più un uomo ma un “pezzo”, uno “stuck”, come dicevano loro. Quando mi hanno tatuato il numero, ho passato la mano sopra, perché sentivo dolore, e ho visto una poltiglia di sangue e inchiostro. Ho avuto paura di aver cancellato tutto e ho inumidito le dita con la saliva. Il numero era iniettato e allora mi sono tranquillizzato. A quel punto ci hanno vestiti: non con le divise a strisce (a quel tempo erano finite) ma con vestiti di altri prigionieri arrivati al campo prima di noi. Capitava di tutto: vestiti troppo grandi, scarpe troppo piccole… e allora ci siamo arrangiati l’uno con l’altro. L’indumento più pesante che avevamo era la giacca: non c’era nient’altro. Adesso quando vado ad Auschwitz mi chiedo, ogni volta, come abbiamo potuto resistere…

Finito di vestirci ci hanno parcheggiati in una baracca completamente vuota, senza niente dentro, e abbiamo dormito – o, almeno, cercato di dormire – per terra. Il giorno dopo ci hanno portati alla quarantena di Auschwitz dove siamo rimasti una ventina di giorni, quasi senza mangiare. Alla fine, è venuto un ufficiale delle SS con due attendenti, ha chiamato il blockfuhrer, il capo baracca, e gli ha chiesto di tirare fuori 70 “pezzi” di cui aveva bisogno per mandarli a lavorare. Io, mio fratello e i miei cugini ci siamo presentati subito perché pensavamo che, se ci avessero fatto lavorare, ci avrebbero pure dato qualcosa da mangiare. Quando siamo arrivati alla sezione B – quella dei prigionieri al lavoro – abbiamo visto trentadue baracche. Ci portarono alla baracca al centro del campo. Chi entrava là non poteva entrare in contatto con gli altri prigionieri.

Al tempo, io parlavo un po’ il tedesco e nella baracca chiesi ad un ebreo polacco che avevamo tanta fame. Subito mi diede un pezzo di pane. Pane bianco come da tempo non mi capitava di vederlo! Inoltre, a tutti noi diede della marmellata… Gli chiesi subito che lavoro facevano. Non mi interessava sapere che cosa avrei dovuto fare, volevo mangiare! Ero giovane e dopo 12 giorni di viaggio e venti di quarantena la fame cominciava a farsi sentire… Lui mi disse di stare tranquillo perché vi sarebbe stato sempre da mangiare per i prigionieri di quel blocco, che, mi spiegò, facevano parte di una squadra speciale chiamata “Sonderkommando”: erano tutti quelli che lavoravano nei crematori. Lì per lì mi è venuto un colpo, poi, pensando al cibo, mi sono detto che il lavoro non sarebbe stato poi così complicato. Il giorno dopo, ci accompagnarono sul posto: c’erano una serie di costruzioni poste una di fronte all’altra. Il capo ci chiese di non entrare e di fare solamente un po’ di pulizia all’esterno. Ero giovane e curioso così mi spinsi vicino ad una costruzione dove c’era una finestra ad altezza d’uomo: guardando dentro, vidi una camera piena di cadaveri.

Cominciai a spaventarmi e a chiedermi che cosa ci avrebbero chiesto di fare. Venne il capo, ci portò dietro la costruzione e ci fece scendere sotto, nel “Canada Kommando”, dove venivano depositati tutti i bagagli e le proprietà dei prigionieri. Quel giorno lavorammo lì. L’indomani, invece, ci inoltrammo in un boschetto e, dopo un po’ di cammino, arrivammo ad una piccola casetta. Era la camera a gas dove venivano eliminate le persone. Fummo messi in un angolo da dove, pieni di orrore, vedemmo arrivare centinaia di persone, famiglie al completo, con bimbi e vecchi che vennero fatte svestire al freddo e, con la scusa della doccia, introdotte nella camera a gas. Quando questa fu chiusa, arrivò una macchina con l’insegna della Croce Rossa ai lati, scese l’autista con una scatola contenente due chili di Ziklon B, salì su uno sgabello, aprì la scatola e buttò il contenuto dentro una fessura, poi se ne andò. Dall’interno sentivamo gridare e battere alla porta. Dopo meno di venti minuti non sentimmo più niente…  Allora il capo ci chiamò e ci disse di prendere tutte le persone morte e di portarle fuori, a quindici metri di distanza. C’era una buca profonda, con un grande fuoco e altri prigionieri che buttavano i morti dentro.

Era l’inferno… Ancora oggi, quando lo racconto, mi chiedo se è davvero successo quello che narro o è solo un terribile sogno…  Comunque, quella sera, all’improvviso vedemmo arrivare un sidecar con a bordo un sottufficiale – oggi so che era l’Unterscharfuhrer Moll – che si mise a controllare come svolgevamo il nostro compito. Voleva che ciascuno portasse un cadavere. I corpi erano pesanti, rigidi e non era facile trasportarli. Vide anche un mio amico con un cadavere tra le mani. Era fermo e guardava avanti. Io gli passai vicino e gli dissi di sbrigarsi altrimenti avrebbe rischiato di essere picchiato, lui rimase fermo, come impietrito. Allora, l’ufficiale cominciò a picchiarlo e a colpirlo con la frusta. Il mio amico non si mosse: l’ufficiale estrasse la pistola; cominciò ad agitarla in aria, poi sparò un colpo. Il mio amico rimase in piedi… Il tedesco puntò la grande pistola a tamburo e sparò un altro colpo. L’ amico si accasciò per terra, morto. Poi l’ufficiale mi intimò di portarlo alla buca e di buttarlo nel fuoco. Io lo presi per le gambe, un altro prigioniero per la testa. Mentre lo portavamo, l’ufficiale ci gridò di svestirlo perchè i suoi vestiti appartenevano al Reich e sarebbero serviti ad altre persone dopo di noi. Mentre trascinavo il corpo, pensai tra me: “Il mio amico è morto, ma è più fortunato di noi, perché se non altro non subirà più angherie e brutalità..”

Andai a letto con il cuore pesante e quella notte non riuscii a dormire. Il giorno dopo ci assegnarono il posto definitivo nelle baracche a seconda del mestiere che, durante i giorni di quarantena, avevamo detto di saper fare. Io dissi di essere barbiere, anche perché pensavo che non mi sarebbe stato difficile essere più bravo di quelli che mi avevano depilato. Il capo venne da me e mi diede in mano un grande paio di forbici da sarto e mi disse: “D’ora in poi tu dovrai tagliare i capelli alle donne”, quelle che uscivano morte dalla camera a gas! Un altro amico, impiegato di banca, disse di essere dentista e, pertanto, gli fu intimato di togliere tutti i denti d’oro dalle bocche dei cadaveri…

 

La gente non si insospettiva?

Tutto era organizzato perché la gente non capisse o capisse solo alla fine. Erano accolti da soldati che gridavano “Achtung, achtung”, con una voce che ti entrava dentro le ossa. Nella stanza c’erano degli attaccapanni e ognuno di questi aveva un numero. L’ufficiale diceva a tutti di appendere la loro roba e di ricordarsi il numero del proprio attaccapanni, così da ritrovarla quando sarebbero usciti dalla doccia e non creare confusione. La gente, in questo modo, era convinta di andare a fare la doccia e, a questo scopo, c’era una grande stanza con tante docce finte. Alcuni, per esempio le donne con i bimbi piccoli, cercavano di andare per primi, in modo da finire alla svelta. Andavano, si mettevano sotto la doccia e cominciavano a strofinarsi. Non c’erano finestre, l’acqua non scendeva e la gente continuava ad entrare completamente nuda. Alla fine, solo alla fine, quando erano entrati tutti fino all’ultimo e dentro c’erano circa millecinquecento persone, cominciavano a sospettare. Dicevano: “Dobbiamo fare la doccia, l’acqua non arriva, le persone sono tutte pigiate”. I primi arrivati ormai avevano capito che qualcosa stava per succedere e volevano uscire, ma appena si avvicinavano venivano presi a frustate da un tedesco. Poi la porta, simile a quella dei frigoriferi dei macellai con al centro uno spioncino per vedere l’interno, si chiudeva alle loro spalle.  Il tedesco che stava fuori aveva la possibilità di accendere e spegnere la luce: per lui l’ interruttore era come un gioco, perché poteva vedere la reazione delle persone che restavano all’improvviso al buio e si spaventano. Quando riaccendeva la luce, quelli tiravano un sospiro di sollievo e così continuava su e giù, finché arrivava il solito furgoncino con la Croce Rossa ai lati e il tedesco che infilava nella botola lo Ziklon B. Dopo meno di venti minuti, tutti quelli che stavano dentro erano asfissiati e noi dovevamo metterci al lavoro.

 

Hai un ricordo particolare?

È difficile crederlo, eppure una volta una persona è riuscita a sopravvivere alla camera a gas. Era un bambino di circa due mesi. All’improvviso, dopo che avevamo aperto la porta e messo in funzione i ventilatori per togliere l’odore tremendo del gas e della morte, uno che lavorava con noi disse: “Ho sentito un rumore”. Noi abbiamo pensato che stesse perdendo il lume della ragione e non gli abbiamo dato retta. Dopo una decina di minuti, di nuovo, cominciò a dire di sentire rumori. Ci siamo fermati tutti ad ascoltare ma non ci parve di sentire niente. Fino al momento in cui sentimmo, da lontano, un vagito di bambino.  Allora uno di noi salì sui corpi e si fermò davanti ad una donna – oramai morta – che aveva attaccato al seno il suo piccolo bambino.  Questi finché riuscì a succhiare stette tranquillo ma quando non arrivò più latte cominciò a piangere. Era vivo. Noi lo prendemmo e lo portammo fuori ma la sua sorte era segnata. Il soldato tedesco appena lo vide ci ordinò di portarglielo e, con il suo fucile ad aria compressa, gli sparò in bocca…

 

Daniele Rocchetti