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Che cosa chiedono e che cosa offrono i giovani alla chiesa?

di Giordano Goccini – Parroco di Novellara, già direttore della pastorale giovanile dell’Emilia Romagna

 

 

La sindrome dei banchi vuoti

Quello che i nostri occhi (i miei di parroco in particolare) non possono ignorare sono i banchi vuoti in chiesa. Quelli da­vanti, soprattutto, nelle prime file, che appena arriva l’estate vengono abbandonati anche dai bambini, ultimo baluardo del­la resistenza liturgica. Stanno lì muti e vuoti – i banchi – a dirci inesorabilmente che i giovani sono altrove. Ci pare un’atroce ingiustizia: quei banchi sono lì e perciò dovrebbero essere pieni – magari di giovani e ragazze a mani giunte – e se non lo sono c’è qual­cosa che non va. Colpa mia, che non sono un bravo prete, della comunità, dei tempi moderni, delle famiglie… e così via con le lamentazioni che ben conosciamo. I banchi vuoti ci dicono di una generazione che lì non ci vuol più stare, che non abita più quello spazio, quel tempo, quel mo­do, quella grammatica della fede che ha accompagnato i passag­gi generazionali fino a qualche decennio fa. Verrebbe da dire che i giovani alla Chiesa non hanno un bel niente da chiedere, perché la ritengono inadeguata ai loro pro­blemi, incapace di intercettare i loro bisogni, distante dai loro compiti evolutivi. E hanno anche ben poco da dare, dal momen­to che le comunità tendono ad arroccarsi nel passato e non si lasciano provocare dalle loro domande.

Il fardello evolutivo

Dobbiamo renderci conto che nessuna generazione ha mai avuto a disposizione, tanti strumenti e opportunità come questa: studiare, viaggiare, sperimentare… Nello stesso tempo nessuna generazione si è trovata in un vuoto di spazi e di chiamate come quello attuale. Non c’è una so­cietà di fronte ai giovani che dica «cresci alla svelta che abbiamo bisogno di te», quanto piuttosto «resta giovane finché puoi!» (…). Del futuro non sappiamo nulla e non abbiamo più la convinzione che sarà migliore, come hanno sempre pensato i nostri padri. Così questi ragazzi devono accordare un assurdo ossimoro esistenziale: pieni di opportunità nell’oggi con un domani fluttuante e respingente.

La fede evanescente

In questo contesto evolutivo il tema della fede rimane sullo sfondo senza essere affermato, né negato. Il Dio che serve è qualcuno che accoglie, rassicura e consola. Delle nozioni imparate a ca­techismo vengono trattenute quelle funzionali ad affrontare la vita: il Padre che ama teneramente, che perdona gli errori, che conforta nelle crisi esistenziali. Della narrazione di Gesù, del fascino della vocazione al di­scepolato, del kerigma della morte e risurrezione, non resta traccia, al punto da temere che non vi sia stata alcuna trasmis­sione. Le esigenze morali della vita cristiana vengono percepite come esagerate, anacronistiche e irraggiungibili e spesso cestinate con orrore. Le proibizioni non aiutano ad af­frontare una vita dove tutto va sperimentato e il giudizio morale è affidato ai sensi. Il nuovo imperativo morale lo canta Caparezza: «devi fare ciò che ti fa stare bene». La proposta ecclesiale risulta sempre più inutile e lontana: hanno già sperimentato la comunità cristiana come inadeguata ad affrontare le sfide della vita.

Riaccendere un discorso

La pastorale tradizionale delle nostre parrocchie ne è messa a dura prova. Nel tempo: dal festivo al feriale. La parrocchia scandisce il rit­mo della fede attraverso le ricorrenze festive, il calendario litur­gico (…): Per i giovani il tempo dell’incontro con Dio non è più la festa, ma il feriale. Nello spazio: dal sacro al profano. Nell’esperienza religiosa ci sono alcuni spazi connotati da una sacralità misteriosa, architettonici, come le chiese, o memoria di eventi storici, come i santuari. Per i giovani questi spazi non hanno più alcun interesse. Dio lo si può incontrare ovunque: nel silenzio della propria camera, nel frastuono della città, negli spazi di solitudine e nei luoghi di incontro con gli altri. Nella mediazione ecclesiale: dai sacramenti all’incontro di­retto. Per accostare il divino è necessaria una mediazione: luoghi, persone, simboli, riti che rappresentano un mistero e lo fanno accadere. Per i giovani l’incontro con Dio e qualcosa di diretto e forte, che devono sentire in prima persona: «mi dà conforto, sento che mi accompagna…». La mediazione ecclesiale non è più negata, è semplicemente accantonata, perché non ce n’è bisogno. Magari qualche volta vado anche a Messa, perché «mi fa stare bene» o «sento che ne ho bisogno». Questo punto è molto importante perché mina alla radice uno dei capisaldi della nostra pastorale: il sacerdozio e la mediazione sacramentale. Il sacerdozio ministeriale ha le ore contate, non per mancanza di vocazioni, ma perché svanisce la sua ragion d’essere. Nel senso ultimo: dal cielo alla terra. Le precedenti generazioni hanno vissuto la fede sentendosi «in esilio» in questa «valle di lacrime», in attesa della vera patria, quella che ci attende nei cieli. Valeva la pena affron­tare disagi e sacrifici in questa vita per conquistare un premio eterno, evitare l’inferno. Ma per i nostri giovani l’inferno che fa paura non è quello eterno, quan­to piuttosto la possibilità di una vita non realizzata, accasciata nella privazione delle passioni e delle relazioni. L’impe­riosa esigenza di autorealizzare se stessi e la drammatica espe­rienza di non raggiungerla, pone nuove sfide alla fede che non può accontentarsi di un rilancio nell’aldilà. Nel linguaggio: dall’etica all’estetica. I giovani oggi non van­no in chiesa perché è giusto, non pregano perché è buono, non professano la fede perché è vero. Quelli che vivono intensamen­te un’esperienza di fede dicono di farlo perché è bello! Perfino i giovani non credenti affermano che sarebbe bello credere in Dio. Il ritorno prepotente dell’estetica ci apre squarci di dialogo. Si avverte però la fatica ad abbandonare un linguaggio legato all’etica: «si deve», «è giu­sto», «non si può»…

Una pastorale in dissolvenza

Noi continuiamo a lavorare a testa bassa sulle dimensioni che i giovani ormai hanno abbandonato: la festa, il sacro, la mediazione sacramentale, la vita eterna e le esigenze etiche. Loro hanno sposato la loro ricerca di Dio nel feriale, nel profano, nell’incontro diretto, nell’esistenza terrena e nella bellezza. La pastorale parrocchiale tradizionale, ma anche quella più innovativa dei nuovi movimenti ecclesiali, non pare orientata a rimettersi in dialogo con questa generazione. Sembriamo trincerarci dietro l’idea della «minoranza signifi­cativa» piuttosto che aprirci a un dialogo audace equipaggiati del Vangelo soltanto. L’azione ecclesiale si affievolisce non per mancanza dei pre­ti, ma per l’incapacità di entrare in un dialogo esistenziale coi nostri contemporanei, nel quale immettere la novità del discorso evangelico. E non si tratta soltanto dei gio­vani, ma anche degli adulti, i quali, seppur maggiormente socializzati alla religione tradizionale, la percepiscono estranea ai problemi e alle scelte della vita.

I giovani e la Chiesa

La ricerca di fede delle nuove generazioni, un po’ scomposta, inter­mittente e “liquida” non è affatto distante dall’atteggiamento con cui Gesù prende le di­stanze dalla struttura religiosa del suo tempo, basata anch’essa sui tempi festivi – «perché fai ciò che non è lecito in giorno di sabato?» -, gli spazi sacri – «distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» -, la mediazione sacerdotale – «sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei» -, la promes­sa della salvezza – «oggi la salvezza è entrata in questa casa» – e la legge morale – «avete inteso che fu detto, ma io vi dico…». Gesù ha cercato di dissolvere l’apparato religioso del suo po­polo per lasciare spazio all’azione di salvezza che Dio compie oggi nel tempo e nello spazio della storia, nell’incontro concreto con gli uomini e le donne e la loro ricerca esistenziale. I giovani, attraverso la loro indifferenza, le loro richieste spingono a un rinnovamento del nostro vissuto ecclesiale che deve dissolvere le categorie rigide, dettate dalla ricerca di identità e di sicurezza, per assumere la forma nuova del Vangelo. Paradossal­mente sono proprio i banchi vuoti dono che i giovani offrono oggi alla Chiesa, costringendola a cambiare parametri, stili e linguaggi, provocandola ad uscire e instaurare un dialogo autentico con gli uomini e le donne di questo tempo.

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