Ci siamo illusi che producendo tante nuove idee avremmo risolto i problemi dell’innovazione, del mercato e della società. Ma nel momento in cui abbiamo potenziato la nostra capacità di produrre nuove idee si è aperto un problema nuovo: come facciamo a estrarre un valore, un significato e un senso da queste idee? Sappiamo ancora definire il valore e il senso di ciò che realizziamo? Più o meno questo scriveva Roberto Verganti nel suo libro Overcrowded, ponendo il fondamentale del problema dell’innovazione di senso, molto di questo si trova in The Value of Everything di Mariana Mazzucato. Domande già attuali prima dell’emergenza, ineludibili in un presente in cui non vi è più alternativa per l’innovazione se non di essere equa, inclusiva e generativa. L’innovazione di senso, il sense of purpose di ogni atto imprenditoriale, tecnologico, finanziario è la stella polare per dare un significato concreto alla ripartenza, per tracciare una strada di riforma strutturale e radicale o, meno prosaicamente, per fare sì che l’irripetibile massa di risorse che pioveranno sul nostro Paese col Recovery plan non vada sprecata in quell’economia estrattiva che troppo a lungo abbiamo coltivato. L’innovazione di senso ha bisogno di nuovi interpreti e la politica deve andare a cercarli in luoghi diversi da quelli che è abituata a frequentare. Uno di questi è la grande area grigia (ma splendente) che sta tra il terzo settore e un profit che sa ibridarsi e adattarsi ai bisogni della società e delle comunità. È l’area cui guarda l’Action plan for the social economy della Commissione europea, che ispirerà molte delle azioni europee e, speriamo, nazionali. È lì che si trova parte del codice genetico imprenditoriale che servirà per intercettare le traiettorie di sviluppo nascenti coi nuovi paradigmi di economia della cura e dell’assistenza, dell’abitare gli spazi e i luoghi, del turismo di prossimità, della produzione e distribuzione del cibo. Il governo ha già fatto molto in questa direzione, intervenendo sull’emergenza finanziaria del terzo settore. Il prossimo passo che si chiede al governo è di pensare all’economia sociale come una traiettoria non marginale di politica industriale e dell’innovazione. Non solo trasformazione digitale ma anche interventi di rafforzamento patrimoniale attraverso finanza specializzata, di trasferimento tecnologico, di procurement innovativo, di sostegno a partenariati profit – terzo settore. Si trovi il coraggio di farlo pensando ai quasi 100 milioni di cittadini europei direttamente impegnati nel sociale che in Europa rappresentano un bacino di idee e innovazione (anche tecnologica, sì) tanto interessante quanto i giovani ambiziosi che affollano le eleganti clubhouse dell’innovazione. Oppure pensando alle 350 mila organizzazioni del terzo settore in Italia come a uno straordinario incubatore e acceleratore di impresa diffuso sul territorio, decisivo per dare un nuovo senso alle politiche di coesione, come suggerisce l’Europa col programma “React-Eu”. Le ragioni per farlo sono ottime. Primo, in un Paese di produttività stagnante, in cui tutti parlano solo di politiche redistributive, anche il terzo settore può e deve fare la sua parte nella creazione di valore economico, insieme realizzando una nuova generazione di welfare trasformativo. Secondo, perché solo l’economia e l’innovazione sociale possono disinnescare il potenziale di diseguaglianza e lacerazione sociale che è nascosto tra le pieghe del green new deal. Infine, perché questa è una politica anticipatrice di futuro, un futuro nel quale il sense of purpose, il valore e il significato delle cose, disegnerà un nuovo capitalismo e un nuovo modo di stare sul mercato.
Mario Calderini su La Repubblica del 6 giugno 2020
L’autore è professore ordinario presso il Politecnico di Milano, School of Management, e dirige l’Alta Scuola Politecnica