di Daniele Rocchetti
Sento da più parti del mondo cattolico alcuni voci relative al fatto che nel Governo Draghi i cattolici siano poco rappresentati. Non so dove abbiano ricavato questo giudizio, a quali parametri facciano riferimento. Confesso la mia fatica a trovare ragioni per le quali i “cattolici” (termine usato spesso in modo disinvolto) debbano esigere spazio e visibilità. Non che non sia importante la presenza di laici cristianamente ispirati ma la questione mi pare più complessa. L’ho ribadito più volte: nella comunità cristiana c’è un’indubbia fatica a far crescere, accompagnare e formare laici competenti dentro le questioni del mondo. Dentro la politica e nell’economia, nel welfare e nella sanità. Rintanati nel nostro piccolo perimetro, abbiamo faticato a comprendere che l’umano, segno del Regno, attraversa confini e recinti e abita là dove abitano gli uomini. E se dentro quei pertugi, sempre più larghi, non ci sono laici cristiani competenti, come si può immaginare una classe dirigente che ambisca a responsabilità?
Con lucidità, l’indimenticato padre Bartolomeo Sorge, infaticabile animatore di pensiero e di riflessione politica, sosteneva che il problema della presenza politica dei cattolici si pone a un duplice livello: la preparazione di una classe dirigente e l’aspetto sociale. “Dobbiamo formare uomini e donne che siano spiritualmente elevati, abbiano un’alta tensione etica e ideale e al tempo stesso professionalità. Se non c’è questa classe dirigente non facciamo nulla”. Sul versante sociale il direttore di Civiltà Cattolica prima e Aggiornamenti Sociali poi, sosteneva che “è cambiata la cultura del Paese. Fino a che c’erano le ideologie di massa la maggioranza della gente aveva ancora una cultura cristianamente ispirata. Questa cultura ha fatto nascere la Costituzione, in particolare i primi 12 articoli”. C’era quindi un legame con la classe dirigente che mandava avanti quei principi ed “era più facile perché c’era un confronto tra ideologie non fra loro compatibili”. Questo contesto ora è cambiato:
“La cultura maggioritaria in Italia non è più quella cristiana”.
Servono dunque occhi di fede, certi della forza inarrestabile del “seme” e del “lievito evangelico” per abilitarsi a leggere i segni deboli della storia. Serve evitare l’accidia, ovvero una neutralità appiattita che ha paura di valutare oggettivamente le proposte secondo criteri etici, per cui “si prende atto della diversità senza che si dia luogo ad un dialogo che aiuti a maturare conclusioni condivise” (Martini). Serve impedire di ridurre la presenza dei cattolici entro un falso moderatismo che appanna la forza trasformante della Parola. Serve, infine, rifuggire dalla sindrome di accerchiamento, tanto diffusa in questa stagione tra i credenti, che utilizza, di solito, il linguaggio incattivito o il piagnisteo.
Quello che è certo è che, al di là delle pretese, come cristiani viviamo una situazione di marginalità pubblica fino a poco tempo fa impensabile. Che sia un’occasione di conversione è indubbio. Che sia una grazia, lo diremo. Sento profondamente vere le parole di don Giuseppe Dossetti, lucido interprete del cattolicesimo del Novecento: “Io non vedrei con orrore e con spavento un tempo di purgatorio dei cattolici politici. Non delle singole personalità, ma della loro realtà aggressiva e della loro cultura stessa. C’è bisogno di molta sanazione”