Il matrimonio, la coppia, la famiglia.
Una realtà che, con relazioni diverse, coinvolge tutti e che oggi è attraversata da problematiche complesse.
Non è questo il luogo per analisi sociologiche.
Questo è il luogo dell’ascolto della Parola, che stamani ci richiama al progetto originario di Dio.
E quale è il progetto di Dio?
È scritto (Gen. 2,18-24): “Non è bene che l’uomo (essere umano, uomo e donna) sia solo”. La solitudine, intesa come mancanza di comunicazione, “non è bene”. La solitudine non scelta è male! Nessuno basta a se stesso. La persona umana, in quanto creata ad “immagine e somiglianza” del Dio comunione trinitaria, ha bisogno per realizzarsi dei “tu” con cui entrare in comunione, dei “tu” da amare.
Amare ed essere amati è la vita, il senso, il sapore della vita.
Certo l’amore uomo-donna, di coppia, non è l’unico: c’è l’amore di parentela, di amicizia, di compassione…
Non è l’unico, ma è il primordiale, è all’origine della vita; ed è il più completo, in quanto ha in sé tutte le dimensioni dell’amore: dall’eros, naturale attrazione tra i sessi; alla filia, amore di amicizia; all’agape, amore di oblazione e gratuità.
Uomo e donna si chiamano, da una solitudine all’altra
Nel racconto biblico, Adamo si rende conto di non poter essere appagato dalle cose e neppure dagli animali, che pur hanno il ‘soffio della vita’; passati in rassegna, “non trovò un aiuto che gli corrispondesse”, perché la vera comunione non è nel possesso, ma nella pari dignità dell’appartenenza reciproca.
E Dio decide: “Voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”, che gli stia di fronte nella diversità e distinzione, in un rapporto sorprendente e creativo: due volti che si contemplino, per scoprirsi dono l’uno per l’altro e dialogare.
L’esclamazione di Adamo: “Questa volta è carne della mia carne!”, esprime la gioia di chi riconosce nell’altro il suo completamento, secondo uguaglianza e reciprocità, significate anche dalla derivazione del nome della donna (isshah) da quello dell’uomo (ish). Una reciprocità di dialogo, di dono, completa che fa dei due “una sola carne”: io e tu che, senza dissolversi l’uno nell’altro, diventano un noi, una “noità” indissolubile.
L’indissolubilità del matrimonio è comandata da Gesù (Mc.10,2-16): “L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto”. Uomo, in senso inclusivo, cioè uomo e donna.
Infatti, mentre nella legislazione ebraica (Deut. 24,1) solo il marito aveva il diritto di ripudiare la moglie, Gesù considera pari i due sessi: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra commetta adulterio..; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio”.
L’indissolubilità! È da riscoprire quale è: non un giogo, ma un’esigenza dell’amore vero.
Sposarsi è accogliere l’altro/a e farsi suo/a compagno/a nel viaggio della vita. È sposare il suo passato, il suo presente, il suo futuro. Anche il suo futuro: il “già e il non ancora”, ciò che si è e ciò che si può diventare. Infatti amare una persona è mettersi al suo servizio perché cresca in ogni sua dimensione.
E la crescita avviene, può avvenire, solo nel tempo; e non in un tempo prefissato, ma nella stabilità e continuità della relazione.
Inoltre, l’indissolubilità è richiesta anche dalla consapevolezza che l’altro/a è un universo inesauribile e un’intera vita non basta ad esplorarlo.
Sposi si diventa, nel tempo.
“Ciò che è essenziale è imparare l’amore come fatica, come lavoro, come storia. È importante passare dall’innamoramento al vivere insieme con un’altra persona. L’amore che ha scelto i due deve diventare l’amore che i due scelgono facendo divenire storia il loro incontro: allora l’amore diventerà pazienza, ascolto, perdono, attesa dei tempi dell’altro, sacrificio, attenzione, sopportazione, riconciliazione” (Bose). Così si realizza il “per sempre”, l’indissolubilità come fedeltà incondizionata.
Ma non è facile. E il Vangelo ne indica il motivo: “la durezza del cuore”. Cuore, lo sappiamo, è il centro della persona, l’io profondo.
Bisogna vincere la durezza del cuore (in greco sklerokardìa). Chi non è, in qualche misura, malato di sclerosi al cuore? È possibile guarire? Certo. Se, soprattutto nelle difficoltà o crisi, invece di fuggire in soluzioni facili, e spesso illusorie, si lavora su se stessi per cambiare il “cuore”.
Inoltre l’incontro con Gesù cambia il cuore, rende capaci di amare come Lui ama, con fedeltà, gratuità; rende capaci di perdono.
Senza perdono nessuna comunità sta in piedi, tanto meno la famiglia.
I credenti “credono all’amore” (1Gv.4,16), si affidano alla fedeltà di Dio.
La fedeltà degli sposi cristiani ha la sua sorgente in Dio e ”racconta”, testimonia la fedeltà di Dio, il suo amore incondizionato.
Dunque uomo e donna sono chiamati a realizzare il progetto originario di Dio: “essere una carne sola”, per sempre.
l matrimonio è una vocazione.
Beato chi risponde con generosità.
Ma non tutti ci riescono e i motivi sono tanti.
Non ci è lecito ergerci a giudici del mistero che coinvolge nel profondo due persone nei loro rapporti. Noi crediamo che “ il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato” (Sl. 34,19 ); vicino anche a chi ha sofferto la crisi e lo svanire di una promessa all’inizio sincera. E noi non dovremmo essere vicini e comprensivi?
Vorrei, in fine, sottolineare che tutti, famiglie consacrate dal Sacramento del matrimonio, famiglie fondate su un patto civile, famiglie di divorziati, famiglie allargate … tutti abbiamo la responsabilità dei figli.
Domenica prossima inizia l’anno di “educazione alla fede” dei nostri figli. “Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono … E prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro”.
Cari amici, cari genitori, a Gesù premono i bambini: “s’indignò“ (parola forte) con i discepoli che li allontanavano. Scelte, stili di vita possono ostacolare l’incontro dei nostri figli con Gesù. Tutti, famiglie e comunità, riscopriamo la gioia di presentare Gesù ai bambini e di presentare i bambini a Gesù.
Ci dice il Papa: “È indispensabile ravvivare l’alleanza tra la famiglia e la comunità cristiana”.