Il fatto che l’evasione fiscale sia pari a circa 100 miliardi l’anno associato ad una diffusa repulsione degli italiani verso tasse, balzelli, contributi e agenzie varie dovrebbe da tempo farci pensare come sia arrivata l’ora di riformulare il patto fiscale tra i cittadini e lo Stato. Questo rapporto non è mai stato facile e non si ha neppure l’impressione che sia possibile escogitare qualcosa per renderlo più bello, eppure ci si può lavorare. Forse si sta prendendo l’iniziativa giusta quando si dichiara – come ha fatto il ministro Gualtieri – l’intenzione di aprire un “cantiere” per ripensare l’imposta sui redditi delle persone fisiche.
L’Irpef è un’imposta che conosciamo bene, fin dal lontano 1974. Ma nel tempo è cambiata, non è più la stessa. Era partita bene, con una forte progressività, con scaglioni che arrivavano fino al 72%. Oggi si è ridotta ad essere un’imposta che distingue le fasce sociali più popolari in 4 scaglioni e appiattisce quelle più ricche in 1 solo: superati i 75mila euro di reddito l’aliquota è del 43% per tutti. Praticamente una flat tax. È dal 1974 che si continua a ridurre gli scaglioni. Per esigenze di semplificazione, si dice. Ma la semplificazione non fa rima con la giustizia fiscale. Se la progressività garantisce – o per lo meno si avvicina alla – giustizia fiscale, allora ci sarebbe bisogno di distinguere, cioè di aggiungere scaglioni progressivi. Ma la strada non sembra essere quella: se ne sta scegliendo una più interessante. La proposta di modellare l’Irpef sul sistema tedesco della progressività continua ci pare più interessante. Si tratta di abbattere la barriera architettonica dei gradini fiscali – gli scaglioni – con una salita continua: una curva fiscale. In questo modo non ci sarebbero più dei salti d’imposta ma un’aliquota specifica applicata ad ogni reddito in base ad una formula matematica: una sorta di aliquota personalizzata che distingue tra l’infinita varietà delle condizioni economiche delle persone e delle famiglie.
Già una ricerca dell’Iref-Acli, pochi mesi fa, aveva ipotizzato questa soluzione. Si tratta di definire un’aliquota di soglia iniziale e una di soglia finale e, all’interno di questa forbice, disegnare una curva che attribuisca la “giusta aliquota” alle diverse situazioni. Le famiglie compiono un numero alto e (sempre più) tracciato di azioni economiche – stipendi, rendite, spese per farmaci, per le scuole ecc. – che merita di essere considerato in modo adeguato. Non ci sono due famiglie uguali, in Italia, per condizione economica. Per quanto il reddito complessivo possa essere assai simile, ogni famiglia si distingue per fonti di reddito, per rendite di proprietà, per la molteplicità delle spese… La tracciabilità delle azioni rende possibile creare un sistema integrato dove far convogliare ciascuna informazione economica riguardante il contribuente, tra redditi imponibili, spese effettuate (magari anche ampliando il menu delle voci detraibili e deducibili) per assimilarle nel calcolo di un’aliquota unica, cioè “solo” di quel contribuente. Insomma, oggi disponiamo di strumenti per inserire moltissime informazioni e poi saperle anche ponderare. In realtà si potrebbe anche fare di più, ossia distinguere tra condizioni di partenza: disporre di curve differenti tra chi lavora e chi è pensionato, tra chi è single e chi ha dei carichi familiari. Si tratta di passare da un fisco di massa – e sempre più massificato da pochi scaglioni – ad un fisco sartoriale, più adeguato alle condizioni di vita delle persone e delle famiglie. In questo modo si darebbe piena applicazione al principio di equità. L’equità – lo ricordiamo – non è soltanto verticale, cioè chi ha redditi più alti paga di più di chi ha redditi più bassi, ma è anche orizzontale, ossia solo chi ha la stessa condizione reddituale paga la stessa cifra. Quindi a condizioni diverse devono corrispondere cifre fiscali diverse. Nell’era degli algoritmi non dovrebbe essere impossibile.
Aprire un dibattito fiscale è anche un modo intelligente per parlare di bene pubblico. Il dibattito sulla flat tax aveva il demerito di accarezzare quella (naturale?) tendenza sociale al pagare sempre di meno, al ridurre “i danni” che il pubblico infliggeva al privato. Attraverso l’idea di flat tax passava anche l’idea un flat State, di uno Stato minimo, a bassi costi di mantenimento. Aprire un cantiere sull’Irpef serve anche a ripensare le spese pubbliche e dunque il ruolo dello Stato. Serve anche a ripensare il rapporto tra ricchezza e povertà. Questo è un dibattito che inizia a diffondersi. A Davos – per dire – un gruppetto di multimiliardari americani chiede imposte più elevate per loro super-ricchi, perché la ricchezza estrema è segno di un sistema economico in fallimento. A noi basta lavorare su quella consistente per creare più eguaglianza. Allo slogan “meno tasse per tutti” bisognerebbe rispondere con “tasse più giuste per tutti”: a ciascuno la propria tassa.