Di Daniele Rocchetti, delegato nazionale alla Vita Cristiana
Da secoli, nella Chiesa cattolica, vivono preti sposati
Si racconta che il cardinal Husar, padre della rinascita spirituale della Chiesa ucraina, scomparso nel maggio di due anni fa, un giorno abbia detto: “In un palazzo di Leopoli, in Ucraina, vivono due famiglie cattoliche, una di rito latino, l’altra di rito greco, entrambe hanno un figlio seminarista. I futuri sacerdoti, che da bambini erano compagni di scuola, una sera d’estate, mentre sono in vacanza, escono insieme per bere una birra e conoscono in un pub due ragazze di cui si innamorano. Ma quando tornano a casa e si confidano sul sentimento sbocciato nei loro cuori, e ognuno lo fa ovviamente con i propri genitori e fratelli, la famiglia di rito greco festeggia e l’altra famiglia piange”.
D’altronde, lo verifico io stesso ogni volta che mi reco in Terra Santa: i pellegrini rimangono stupiti nel vedere i preti “melchiti”, appartenenti cioè alla chiesa greco-cattolica, sposati con moglie e attorniati da numerosi figli. I pellegrini ignorano che da molti secoli nella Chiesa cattolica ci sono sacerdoti sposati. Sono, appunto, i sacerdoti delle Chiese cattoliche orientali tornate alla piena comunione con Roma. Per gli orientali, non è che i sacerdoti possono sposarsi, ma sono le persone già sposate che vengono ordinate.
La stessa cosa esiste nella Chiesa di rito latino, come eccezione, dai tempi di Pio XII. Papa Pacelli ha ricevuto ex sacerdoti anglicani che volevano entrare in comunione con Roma e, sposati, sono stati ordinati sacerdoti. Papa Benedetto stesso con la costituzione Anglicanorum coetibus ha stabilito che questa eccezione, nel caso degli anglicani, possa continuare. Quindi ci sono già delle eccezioni.
“La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri”
Attorno al tema, in questi ultimi mesi si sono scatenati ferocemente i siti e i blog tradizionalisti convinti che il Sinodo sull’Amazzonia in atto possa legittimare forme di ordinazione di viri probati dimenticando di dire, per ignoranza o malafede, che il Sinodo non è un organo deliberativo ma consultivo, che la decisione spetta al Papa che al riguardo potrà esprimersi mediante un’esortazione apostolica post-sinodale o altri strumenti a sua disposizione.
La vicenda mette in gioco ancora una volta il rapporto tra tradizione e tradizionalismo sul quale la Chiesa di oggi si sta confrontando. Per qualcuno la tradizione è qualcosa di immutabile che la Chiesa custodisce e trasmette senza alcuna variazione, mettendola così al riparo dal subdolo e pericoloso tempo presente. Assumono cioè lo stesso meccanismo difensivo che li ha portati a leggere il Concilio Vaticano II solo nella misura in cui confermava ciò che lo aveva preceduto: Sacrosanctum concilium buona solo in quanto ripete Mediator Dei, Dei Verbum se conferma Divino afflante Spiritu, Dignitatis humanae se non contraddice il magistero ottocentesco sulla libertà religiosa…
Il gesuita francese Michel de Certeau sosteneva invece che la tradizione del vangelo non si attua nelle chiese secondo il paradigma della ripetizione, ma piuttosto della riforma, delle “rotture instauratrici”, del recupero di ricchezza come appello del futuro secondo Dio che la tradizione del Vangelo contiene. L’autentico processo di tradizione è insieme fedeltà e rinnovamento: la prima chiede il secondo e reciprocamente. Questo processo non funziona primariamente attraverso eliminazioni e aggiunte, ma piuttosto riportando ogni aspetto della propria tradizione al suo centro, Gesù Signore secondo la testimonianza apostolica, e lasciandolo misurare da esso.
Il celibato dei preti non è di origine divina. Dunque parliamone
Sul celibato dei preti la vicenda storica è conosciuta. Da sempre è stata una questione di disciplina più che di dottrina. Nulla di dogmatico ma, piuttosto, una questione di convenientia. Sia sul piano pratico (non avere troppe preoccupazioni terrene) che su quello, potremmo dire, dell’immagine (il prete celibe come testimone del soprannaturale) il celibato sembrava dare maggiori garanzie rispetto alla possibilità di sposarsi. “Più di ottocento anni fa, nel 1179, il Concilio Lateranense III stabiliva che il celibato ecclesiastico non è di natura divina, ma solo canonica, cioè rappresenta una tradizione che appartiene alla disciplina della Chiesa latina. In questo modo il Lateranense III decideva di non mutare la “disciplina apostolica” dei primi sette primi concili ecumenici (riconosciuti anche dalla Chiesa ortodossa), che rendeva possibile l’ordinazione presbiterale anche di uomini sposati.” (Tornielli).
L’Instrumentum laboris del Sinodo in atto, al n.129 sostiene che: “Affermando che il celibato è un dono per la Chiesa, si chiede che, per le zone più remote della regione, si studi la possibilità di ordinazione sacerdotale per gli anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità anche se hanno ancora una famiglia costituita e stabile, al fine di assicurare i sacramenti che accompagnano e sostengono la vita cristiana”.
Non siamo ingenui. Verso quale volto di Chiesa?
Lo sappiamo tutti. Non si risolve il problema della crisi del prete – che ha ragioni che vengono da lontano e sono più profonde – con l’eliminazione del celibato. Ed è da ingenui credere che la semplice abolizione del celibato sia la risposta all’attuale crisi di vocazioni e all’abbandono del ministero sacerdotale da parte di molti preti, anche nella nostra diocesi. E d’altronde – varrebbe la pena ricordare anche questo – nessuno lo pretende. Però vale la pena ricordare anche che il celibato è un dono, non un dogma. E mai nella storia ne è stata rivendicata l’origine divina.
Forse sarebbe il caso di cominciare a ragionare insieme – oltre il sensazionale e lo scandalistico – verso quale volto di Chiesa vogliamo finalmente cominciare a camminare. Al Sinodo hanno cominciato. Forse ora tocca anche a noi.