La Corte costituzionale ha parzialmente accolto il ricorso presentato da quattro regioni – Campania, Puglia, Sardegna e Toscana – relativo alla legge sull’Autonomia differenziata. In generale, infatti, i giudici hanno ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge; alcuni, centrali profili della norma stessa, però, sono stati dichiarati illegittimi. Alla base della decisione della Consulta, come spiegato dai giudici stessi, vi sono almeno tre principi fondamentali: l’unità indissolubile della Repubblica, la solidarietà tra le regioni e l’eguaglianza dei diritti dei cittadini e delle cittadine italiane.
Innanzitutto, i giudici hanno ravvisato l’incostituzionalità delle disposizioni che rendono troppo generica la devoluzione di competenze dallo Stato alle regioni: il trasferimento, al contrario, deve riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative, e dev’essere giustificato sulla base del principio di sussidiarietà. Come riportato dal comunicato della Corte costituzionale in merito, ciò deve avvenire dunque “in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione”.
A questo passaggio si lega un’altra, fondamentale criticità ravvisata dalla Consulta: i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), ovvero gli standard delle prestazioni e dei servizi che devono essere assicurati in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, non possono essere determinati con una delega legislativa generica, priva di idonei criteri direttivi, o da un decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Ciò, secondo i giudici, limiterebbe il “ruolo costituzionale del Parlamento”, privandolo della sua funzione legislativa, assegnata appunto al Governo.
E ancora, la Corte ha ritenuto illegittima la possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, prevista per finanziare le funzioni trasferite. Ciò potrebbe dar luogo a un meccanismo paradossale, secondo cui a essere premiate sarebbero proprio le regioni inefficienti che, una volta ottenute le risorse finalizzate all’esercizio dei compiti trasferiti, non sono in grado di assicurare con esse il compiuto adempimento delle stesse funzioni. Su questo versante, i giudici hanno anche chiarito che l’individuazione delle risorse destinate alle funzioni trasferite dovrà avvenire non sulla base della spesa storica, bensì prendendo a riferimento costi e fabbisogni standard e criteri di efficienza, liberando risorse da mantenere in capo allo Stato per la copertura delle spese che, nonostante la devoluzione, restano comunque a carico dello stesso. Del resto, per la Consulta è fondamentale tener conto del “quadro generale della finanza pubblica”, così come degli “andamenti del ciclo economico” e del “rispetto degli obblighi eurounitari”.
Un ulteriore punto critico rilevato dai giudici è quello che riguarda l’estensione delle norme della legge sull’Autonomia differenziata alle regioni a statuto speciale, ossia Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta. Queste, secondo la Costituzione, già dispongono di “forme e condizioni particolari di autonomia”: dunque, per la Corte, per ottenere ulteriori margini di autonomia, queste ultime possono semplicemente ricorrere alle procedure previste dai loro statuti speciali.
Dunque, come disposto dai giudici, l’iter legislativo torna nuovamente nelle mani del Parlamento, che dovrà pronunciarsi per riformare i punti messi in evidenza dalla Corte costituzionale, che ha invitato Camera dei deputati e Senato a “colmare i vuoti” derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle quattro regioni sopracitate.
Infine, resta ancora in sospeso l’ipotesi di un referendum abrogativo. Nei mesi scorsi sono state raccolte oltre un milione di firme, che dovranno essere sottoposte al controllo di ammissibilità della Corte di cassazione e della stessa Corte costituzionale; dopodiché, a febbraio, starà al Governo e al presidente della Repubblica individuare la data per il voto, che in ogni caso, come da Costituzione, dovrà essere compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. La pronuncia dei giudici costituzionali, però, mette in dubbio la possibilità di dar luogo al referendum: le modifiche del Parlamento, richieste dalla Corte stessa, potrebbero rendere superflua la consultazione.