Lo scorso 12 settembre, l’Istat ha pubblicato i dati relativi all’andamento del mercato del lavoro nel secondo trimestre 2016.
Così, sul sito del ministero del Lavoro, viene riportato il commento del ministro Poletti “Nel secondo trimestre si conferma la tendenza di crescita dell’occupazione; di particolare rilievo il calo di 252mila Neet in un anno; le ore lavorate aumentano del 2,1% in un anno. Il Jobs Act funziona – commenta il ministro Poletti. I dati diffusi oggi dall’Istat confermano, infatti, quanto avevamo rilevato in occasione del rilascio dei dati mensili, ovvero una tendenza di crescita dell’occupazione. Nel secondo trimestre del 2016 gli occupati aumentano di 189mila unità rispetto al trimestre precedente e di 439mila unità in più in un anno, pari al +2,0%, 223mila dei quali sono under 35. I disoccupati calano di 109mila unità in un anno e gli inattivi di 489mila unità“.
In realtà, i dati dell’Istat danno il via a valutazioni di più ampia portata, e non solo da parte del ministro Poletti. “L’occupazione cresce a livelli straordinari. No, va malissimo. Il Jobs act ha fallito. Macché, sta producendo grandi risultati”, così – tanto per fare un esempio – Francesco Riccardi apre il suo articolo “Dati Istat, il Jobs Act ha funzionato oppure no?” sull’Avvenire del 12 settembre 2016.
Come che sia, i dati rilevati dall’Istat – per stessa ammissione dell’Istituto – non sono particolarmente positivi per le donne. In proposito, riportiamo due passaggi, uno dei quali rilevato con allarme anche dall’Eurostat.
“Diminuiscono per il quinto trimestre consecutivo gli scoraggiati (-158mila in un anno) che rappresentano il 12,5% degli inattivi di 15-64 anni (13,2% nel secondo trimestre 2015). In termini assoluti, la riduzione è più forte per la componente femminile e nelle regioni meridionali. Dai dati di flusso, l’aumento delle transizioni degli scoraggiati verso l’occupazione riguarda gli uomini (dall’11,2% al 13,0%), i giovani 15-34enni (dal 10,6% al 13,6%) e i laureati (dall’8,5% all’11,6%); per le donne, invece, aumentano solo i flussi verso la disoccupazione (dal 13,3% al 14,2%).
Inoltre, tra gli altri motivi di inattività, tra le donne si riducono in valore assoluto i motivi di studio e familiari (-81 mila e -77 mila), tra gli uomini prosegue la riduzione delle persone ritirate dal lavoro o non interessate a lavorare (-69 mila).
I divari di genere continuano ad ampliarsi a vantaggio degli uomini seppure in misura più contenuta rispetto agli ultimi trimestri: la crescita del tasso di occupazione maschile è più marcata (+1,6 punti rispetto a +1,1 punti) e il tasso di disoccupazione diminuisce per gli uomini mentre rimane stabile per le donne, a sintesi della diminuzione nel Nord e della crescita nel Centro e nel Mezzogiorno. Solo la riduzione del tasso di inattività è maggiore per le donne (-1,3 punti rispetto a -1,0 punti per gli uomini)” (Istat, Il mercato del lavoro, II trimestre 2016, pubblicato il 12 settembre 2016).
“Gli indicatori inerenti l’andamento del mercato del lavoro confermano le criticità della situazione economica e sociale nel nostro Paese” – osserva in proposito Agnese Ranghelli, responsabile nazionale del Coordinamento Donne Acli. “Sebbene si sia avuto qualche timido segnale di ripresa, purtroppo non ha riguardato anche la componente femminile, che continua a essere penalizzata, come da ammissione dello stesso Istat.
Anche per quanto riguarda il miglioramento fatto registrare dai Neet, il dato positivo riguarda fondamentalmente i giovani maschi, mentre delle donne sotto i 30 anni con figli piccoli, sei su 10 rimane a casa, rappresentando oltre la metà dei giovani inattivi.
Se da quasi un decennio il progressivo aumento delle donne nel mercato del lavoro non è più considerato un fenomeno irreversibile, il protrarsi della crisi economica ha di fatto accentuato la diversità dei comportamenti: lo testimoniano l’innalzamento del tasso di inattività femminile, la concentrazione in alcuni settori produttivi come quello dei servizi (pubblici e privati), l’aumento del part-time obbligato e non scelto, la sotto-occupazione e la scarsa progressione nelle carriere.
E’ indubbio che l’acuirsi di questo fenomeno non può essere ricondotto soltanto a delle politiche del lavoro disattente alla componente femminile, ma anche – se non soprattutto – a politiche di welfare che continuano a far conto sul lavoro gratuito delle donne per la cura delle persone dipendenti, piccole o grandi che siano.
L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro non può essere ora invocato, per ampliare la platea dei contribuenti e coprire i buchi delle casse previdenziali, ora ignorato per coprire quelli delle risorse destinate al welfare”.
Uno dei dati più rilevanti e più rilevati dai media è stato il calo dei Neet (Not in education, employment or training), a cui l’Istat dedica – all’interno del comunicato – un approfondimento speciale. Anche in questo caso, la differenza di genere presenta un conto pesante: “l’incidenza dei Neet, cresciuta dal 17,7% del secondo trimestre 2008 al 25% del secondo 2013, è rimasta stabile tra il 2014 e il 2015 e ora inizia a ridursi. Il dato cresce però tra le giovani mamme: sei su dieci infatti rimangono a casa. Tra le donne sotto i 30 anni con figli piccoli, rileva l’Istat, l’incidenza delle Neet è al 64,4%. Le neomamme sono inoltre oltre metà di tutti i giovani inattivi che non cercano un impiego e non sono disponibili a lavorare (complessivamente 521 mila persone). L’incidenza dei Neet tra i giovani papà, al contrario, si ferma al 14%, sotto la media complessiva del 22,3%”.
Ci sembra particolarmente interessante proporre in proposito l’analisi condotta da Tiziana Canal e Valentina Gualtieri e pubblicata il 28 settembre scorso sul sito del web-magazine inGenere “Mai così vicini. Uomini e donne a un anno dal Jobs Act”, uno sguardo di genere sul mercato del lavoro a partire dagli ultimi dati disponibili e un interessante “esercizio di stile” con l’intento di osservare con la lente del genere alcuni aspetti della riforma proposta, nonché l’eredità, il terreno, su cui quest’ultima dovrà impiantarsi.