In occasione del convegno “Il futuro è sociale. Insieme per un piano industriale del welfare” che si terrà il 26 ottobre 2016, ospitiamo l’intervento di Stefano Tassinari, consigliere di presidenza nazionale Acli con deleghe alla Cooperazione, all’Impresa Sociale e al Terzo Settore.
Basta usare la crisi come alibi di tutte le difficoltà! Basta chiamare crisi le nostre responsabilità!
Innanzitutto vanno sfatati un paio di luoghi comuni. Primo: la povertà intesa come vulnerabilità diffusa, come fattore di rischio che bussa alla porta anche delle famiglie cosiddette ‘normali’, come paura e disinvestimento diffuso sul futuro, non nasce oggi. Certo negli ultimi anni si è moltiplicata, eccome.
Sono, però, almeno vent’anni che il lavoro non garantisce più a sufficienza stabilità, che la famiglia comincia a non reggere più e diventa sovraccarica, anche perché sempre più spesso si hanno figli piccoli e genitori da accudire. Con conseguente aggravio soprattutto sulle donne e la possibilità di conciliare lavoro e famiglia.
Sono almeno vent’anni che un familiare bisognoso di cure, un lavoro flessibile o mal pagato, una separazione, ma anche un’alluvione, possono rappresentare per molti una caduta nella povertà. E questo la gente lo ha capito e se lo sente addosso da tempo, per cui ha visto e vede bene di programmare il futuro in modo recessivo, cioè difendendosi; le persone e le famiglie si trovano sempre più spesso ad adottare strategie di futuro recessive: ridurre le scelte impegnative per il futuro come non andarsene o mettere su casa, avere figli o più figli.
E così gli economisti hanno preso e proseguono nel lamentare che la domanda, nonostante incentivi vari, non decolli. Che il cavallo pur portato a forza alla fontana non beva. La crisi è un effetto, è innanzitutto un momento di verità. Forse dovremmo tornare ad osservare un po’ di più l’esistenza quotidiana che non è fatta solo di quanti soldi ho oggi in tasca, ma di che cosa mi posso assicurare per il futuro.
Secondo: non c’è stata una carestia e non siamo nel dopoguerra. La crisi non è nata da una assenza di risorse e di capacità, anzi anche guardando il reddito procapite globale – raddoppiato negli ultimi 50 anni – potremmo dire che il mondo e la sua economia, il suo lavoro, non sono mai stati così capaci di creare ricchezza e produrre soluzioni per soddisfare esigenze e problemi, alcune un tempo inimmaginabili.
Il vero problema è stata ed è l’incapacità di vedersi insieme nella crisi, ovvero di rendere sociali, e in molti casi sostenibili, queste conquiste, così si sono moltiplicate e si moltiplicano sfiducia e frammentazione. Così, si moltiplicano all’ennesima potenza i segnali di crescita della povertà assoluta, in particolare tra i giovani e tra chi già lavora: guardare al futuro cercando di perpetuare il presente, rinunciando a progettare, non investendo, emotivamente prima ancora che economicamente.
Serve allora lavorare alla radice della crisi, sul contrasto alla crescita esasperata delle diseguaglianze, ovvero sulla distribuzione della ricchezza e delle opportunità prodotte, e su un sistema di welfare non frammentato e che non si limiti a intervenire sui bisogni ed emergenze, ma promuova una piena cittadinanza.
Il welfare sociale è strategico da questo punto di vista, anche se spesso sottovalutato e rilegato a una sorta di pronto intervento per le emergenze. Ora pare essere tornato nell’agenda politica: Delega povertà, Fondo povertà educativa, Piano infanzia e adolescenza, Fondo non autosufficienza, Homeless Zero, welfare aziendale. Tuttavia serve un disegno e risorse maggiori per passare dalla logica sociale=emergenza a quella sociale=strategia complessiva di sviluppo sociale, che permetterebbe di raggiungere migliori risultati, di spendere meglio e di ricostruire quel tessuto di fiducia collettiva che oggi manca.
‘Il futuro è sociale’ è un appello rivolto al Governo, ma non solo, ai Comuni, alle Regioni, ai Sindacati, a noi stessi Terzo Settore, per pensare al welfare come un’industria ricca di competenze, ma frammentata in differenti territori, settori e rivoli, in parte pubblica, in parte di terzo settore, in parte di ‘faidate’ familiare, in parte lucrativa, in parte servizi, in parte bonus, senza che tutto ciò si parli e provi ad essere governato in una strategia comune. Senza pensare che aumentando l’impatto di questa spesa, che dandosi un piano industriale, anche con maggiori risorse, si possa migliorare una serie di condizioni sociali con risultati in termini di diritti e di fiducia, ma anche di riduzione dei costi di situazioni di emergenza e sofferenza che oggi costano troppo proprio perché la rete di opportunità e garanzie spesso latita. Pensiamo solo ai risultati che produrrebbe una politica per l’infanzia di qualità che raggiunga un più alto numero di bambini, un sistema di detenzione che abbassasse il numero di recidivi, una assistenza dignitosa a domicilio e una politica della salute giocata sul territorio e sulla qualità della vita, una politica sull’immigrazione che investa in una buona integrazione.
Se vogliamo tornare a dare del tu, anzi del Noi all’Europa, dobbiamo ricordarle che il welfare, inteso come obiettivo di benessere condiviso e sostenibile, da costruire insieme, è innanzitutto un fine da perseguire per dare concretezza al nostro affermare su tutto il primato della dignità. La dignità, quella ‘parola chiave che’, ricordava Papa Francesco al Parlamento Europeo ‘ha caratterizzato la ripresa del secondo dopoguerra’. Quando eravamo tutti più poveri.