Fin dal suo inizio il pontificato di papa Francesco porta uno stile nuovo, fresco, comprensibile senza mai essere ne banale ne semplificatorio: nessuna salvifica promessa su una semplice e pronta risoluzione dei problemi della Chiesa, ma già la sera dell’elezione molti percepiscono una sostanziale e presente novità, la scelta del nome, il sorriso, il “buonasera”, l’ironia, il calore il presentarsi come Vescovo di Roma.
Sulla “corretta” interpretazione del Vaticano II Jorge Bergoglio, senza quasi dire una parola in proposito, si lascia alle spalle ogni contesa poiché, spontaneamente e senza difficoltà, vive quella straordinaria assise come parte integrante della Tradizione ecclesiastica. “Il Concilio Vaticano II – ha scritto nella sua prima enciclica, quella redatta “a quattro mani” con il suo predecessore – ha fatto brillare la fede all’interno dell’esperienza umana, percorrendo così le vie dell’uomo contemporaneo. In questo modo è apparso come la fede arricchisce l’esistenza umana in tutte le sue dimensioni”.
Il suo stile di “governance” è in piena continuità con la tradizione conciliare: la collegialità episcopale viene rimessa all’ordine del giorno ed in breve tempo fatta divenire centrale con l’obiettivo di includere e far divenire ricchezza l’insofferenza degli episcopati più lontani dal Vaticano. Solo un mese dopo la sua ascesa al pontificato crea poi il Consiglio dei Cardinali per la riforma del governo ecclesiastico e avvia quindi la stagione dei sinodi con tutto il loro portato di vivacità e ricchezza del dibattito, ancora in corso, che esso porta con se in molte Chiese locali.
La dimensione politica di Francesco è per i poveri e in mezzo ai poveri, in una logica che valorizza la dimensione complessiva dell’approccio alle problematiche civili, ambientali ed economiche senza mai dimenticare che l’ottica da cui partire è quella della sconfitta della “radice di tutti i mali sociali” ovvero l’“inequità” che spesso da occidentali traduciamo e riduciamo, in linguaggio socoiologico, con “lotta alle disuguaglianze”. E in qualche misura questo pensiero si riflette anche sulla comunità ecclesiale nel suo complesso, come quando affermò, ancora da Arcivescovo di Buenos Aires: “Vorrei anche chiarire che, quando si parla di ‘Chiesa’ – soprattutto sui giornali – si tende a parlare dei vescovi, dei preti, della gerarchia; ma la Chiesa è tutto il popolo di Dio”. Una precisazione opportuna, sia nei confronti di una certa presunzione clericale, sia nei confronti della superficialità con cui di certe vicende ecclesiali si parla da parte di giornalisti, che preferiscono dar credito ad ogni spiffero curiale piuttosto che all’esperienza vivente della comunità ecclesiale. D’altro canto, poteva un vescovo venuto da una situazione come quella argentina, o latinoamericana in generale, parlare diversamente? Già nel 2007, nel corso della grande assise continentale di Aparecida, il card. Bergoglio aveva detto che “viviamo in una delle più diseguali parti del mondo, che ha visto certamente una grande crescita economica, ma anche l’impoverimento dei più deboli. L’ingiusta distribuzione dei beni persiste, creando una situazione di peccato sociale che grida al Cielo e limita le possibilità di una vita degna di questo nome per così tanti nostri fratelli”.
La povertà e l’esclusione sociale diventano quindi la chiave interpretativa della storia, conducendo così ad un capovolgimento dell’ottica abituale, ed assume quindi significato la scelta del Papa, come prima dell’Arcivescovo, di vivere poveramente e di amare quei sacerdoti che mescolano la loro vita con quella del popolo, i famosi “pastori che hanno l’odore delle pecore”, secondo una felice immagine coniata dallo stesso Francesco.
Eccoci dunque al problema fondamentale, che conduce ad una denuncia della strutturale ingiustizia del sistema politico e sociale che domina il nostro pianeta, richiamando l’assai poco approfondita categoria delle strutture di peccato, che Giovanni Paolo II aveva coniato quasi quarant’ anni fa nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis, e che è stata ripresa dal nuovo Catechismo universale.
Il quadro che il papa ha delineato nei suoi documenti più impegnativi – l’esortazione apostolica Evangelii gaudium e le encicliche Laudato sì e Fratelli tutti – è chiarissimo e non deflette in alcun modo rispetto al tradizionale insegnamento morale della Chiesa, rimodulandolo semmai secondo un’idea del servizio alla carità che è più immediatamente comprensibile alla sensibilità contemporanea, e che a sua volta si radica nell’insegnamento dei suoi predecessori. Il Papa stesso lo ha chiarito, conversando con il confratello gesuita Antonio Spadaro, direttore della “Civiltà cattolica”, quando ha affermato che “Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio altrimenti anche l’edificio morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo”.
Il Papa in sintesi non ha cambiato l’agenda “politica” della cristianità ma ha semplicemente cambiato l’ordine delle priorità rendendolo più comprensibile e vicino alle persone del nostro tempo ed ha cambiato lo stile ed il modo di porsi del Pontefice e con lui della Chiesa, che egli vuole “in uscita” e testimone della gioia del Vangelo con parole di verità e gesti emblematici. Bergoglio è anche il Papa dei gesti che rimangono più di ogni altra cosa nel cuore delle persone: l’elenco sarebbe infinito da Lampedusa a Bangui, dall’Iraq al campo nomadi di Roma, fino al suo pregare “tutti nella stessa barca” in piazza San Pietro nel pieno della pandemia. Ognuno pensi e faccia memoria di questi gesti e si lasci convertire il cuore da questo erede di Pietro “venuto dalla fine del mondo”.